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T.S.O. Trattamento sanitario obbligatorio

 

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Che cos’è un T.S.O.

E’ un provvedimento emanato dal sindaco, per cui si è obbligati a sottoporci a cure psichiatriche, anche contro la nostra volontà. Si attua con il ricovero preso i reparti di psichiatria. Perché venga attuato devono coesistere 2 certificati medici che accertino che: 1) la persona si trova in una situazione tale da necessitare urgenti interventi terapeutici; 2) la persona rifiuta gli interventi terapeutici proposti; 3) non è possibile adottare tempestive misure extra-ospedaliere per la persona.

Il Trattamento Sanitario Obbligatorio è oggetto di discussione, perché senza dubbio interferisce con l’integrità psichica del soggetto su cui viene effettuato, con il suo libero arbitrio e più in generale con i suoi diritti umani.

Spesso si tratta di una violazione dei diritti di minoranze deboli: immigrati, zingari, poveri e senzatetto, liberi pensatori, omosessuali, persone ipersensibili.

Innumerevoli casi verificatisi in tutto il mondo dimostrano come il ricovero e il trattamento con psicofarmaci o altre terapie, contro la volontà del paziente, abbiano spesso causato gravi disturbi nel soggetto trattato e in alcuni casi la sua morte. Può sembrare incredibile, ma è il Sindaco del comune in cui risiede il paziente coatto a disporre il T.S.O., che è proposto da un medico, non importa se psichiatra. Un medico della struttura sanitaria pubblica, di solito l’ufficiale sanitario, convalida il trattamento, che può essere eseguito quando i due medici suindicati dichiarano che il soggetto destinato al T.S.O. è affetto da turbe psichiche tali da richiedere un trattamento urgente, che rifiuta di sottoporsi agli stessi di sua volontà e che non vi siano alternative extraospedaliere al ricovero. Il T.S.O. è sempre effettuato presso i reparti psichiatrici degli ospedali civili; dura sette giorni, che il Sindaco può rinnovare su suggerimento del primario del reparto psichiatrico. Il giudice tutelare si accerta che il T.S.O. sia effettuato secondo le procedure di norma. Esistono anche diritti del paziente, ma di fatto egli non può opporsi in alcun modo al trattamento. IL T.S.O., Trattamento Sanitario Obbligatorio, viene presentato come uno strumento utile a intervenire quando cittadini con gravi turbe psichiche rifiutano di sottoporsi a cure indispensabili, ma in realtà viene usato o con estrema superficialità, su prescrizione di figure professionali impreparate e con una vigilanza praticamente inesistente, o anche come mezzo repressivo per il controllo sociale. Oltre al T.S.O. vero e proprio, terapie psichiatriche e psicofarmacologiche vengono spesso comminate anche a soggetti deboli: carcerati, anziani, ragazzi con problemi familiari, bambini iperattivi, con l’approvazione del giudice competente.

L’obbligo a trattamenti psichiatrici e all’assunzione di farmaci dai gravi effetti collaterali è più diffuso di quanto non si creda. Come può, per esempio, un ragazzino affidato a una comunità ribellarsi a una terapia inutile, che viene prescritta in seguito alle considerazioni di un educatore o di un’assistente sociale? Il medico li asseconda e il giudice, che non è in grado di valutarne l’opportunità, autorizza. Un adolescente

iperattivo o con inclinazioni omosessuali subisce il trattamento senza fiatare. Esistono strutture private che effettuano tali discutibili terapie per ragazzi italiani o stranieri (in questi ultimi casi, si indirizzano i soggetti a centri etnopsichiatrici: un termine inquietante dietro il quale girano molto denaro, molta sperimentazione).

Il T.S.O. è anche un mezzo di oppressione delle minoranze e dei soggetti deboli. Questa affermazione nasce dall’osservazione di numerosi casi in cui il T.S.O. è stato somministrato, con effetti devastanti, a cittadini considerati “scomodi”: immigrati, ambulanti, Rrom, giovani ma anche persone semplicemente ipersensibili o eccentriche (creative), che vengono prelevate con ambulanze e condotte nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), dove vengono sottoposte al Trattamento senza che vi siano comportamenti palesemente aggressivi o pericolosi per se stessi o per gli altri. Quindi, sono persone che non soffrono di psicopatologie gravi al punto da richiedere quel tipo di intervento.

Il T.S.O. rappresenta un uso consolidato in molte città italiane ed il suo fine coercitivo è dimostrato da molti casi. E’ emblematico quello di Giuseppe Casu, che il 15 giugno 2006 a Quartu (Cagliari) venne prelevato a forza, ammanettato alla barella e portato via per un ricovero coatto in psichiatria, dove morì una settimana dopo per Tromboembolia venosa. Il T.S.O. era stato prescritto solo perché Casu era un ambulante abusivo, una delle professioni – ci si consenta il paragone – che il partito nazionalsocialista considerava “asociali”. Definendo così alcune categorie di persone, i nazisti le punivano e spesso le annientavano attraverso la prescrizione di micidiali Trattamenti Sanitari Obbligatori. Un altro caso rappresentativo di questa terapia dell’orrore è quello di Siamak Brahmandpour, italiano di origini iraniane, biologo all’ospedale di Campo di Marte di Lucca che, il 24 agosto 2007, è stato coattivamente prelevato dal posto di lavoro da quattro medici accompagnati da tre vigili urbani e trasferito nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Pontedera. Il fatto che avesse denunciato ripetutamente episodi di mobbing avvenuti nell’ospedale dove prestava servizio potrebbe aver indotto qualcuno a ritenerlo “pericoloso”.

Quando ci si avvicina all’argomento T.S.O., si deve tener conto di un fatto importante, ovvero che è facilissimo costruire un dossier volto a dimostrare la potenziale asocialità di un soggetto, di qualsiasi soggetto. Un vezzo, un’eccentricità, una piccola mania: chi non ne ha? Eppure, sarebbero potenzialmente sufficienti per giustificare la somministrazione di un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Sette giorni di violenza psichica, magari seguiti da altri sette giorni e altri sette giorni… Uno scenario in cui autorità, professionisti della medicina, ricercatori, case farmaceutiche operano e guadagnano molto denaro, mentre gli studi più moderni dimostrano come sia impossibile anche per i più celebrati specialisti prevedere l’evoluzione distruttiva o autodistruttiva di un soggetto in base a una valutazione del suo comportamento. Bisogna considerare altresì che il soggetto che manifesta problemi psichici anche gravi non è in realtà – lo dicono casistica e statistica – più pericoloso di chiunque altro ed è solo il pregiudizio a nutrire questa idea tanto diffusa. Ed è opinabile addirittura la convinzione che la psicofarmacologia e la psicoterapia rieducativa siano in grado di migliorare la condotta dei pazienti.

Ricordiamo che, in presenza di comportamenti che integrano gli estremi di reati quali, ad esempio,tentato omicidio, tentate lesioni personali gravi,lesioni personali gravi, il codice di procedura penale dispone che laddove il giudice accerti,a seguito di apposita perizia psichiatrica, la presenza di malattia mentale, è tenuto ad applicare nei confronti del reo la misura di sicurezza del ricovero in Ospedale psichiatrico. Esiste già una apposita disciplina, dettata dal codice penale, sufficiente a rispondere a quest’esigenza.

I motivi per combattere la pratica del T.S.O. sono tanti, perché nessuno studio è in grado di dimostrarne anche una minima utilità sociale, mentre innumerevoli sono i danni che produce su esseri umani trasformati in cavie senza diritti. Come se ciò non bastasse, l’inadeguatezza delle procedure, delle competenze e delle strutture trasformano questo strumento pseudoterapeutico in un pericolo per i soggetti che lo subiscono e in definitiva per l’intera società. Bisogna chiederne l’abolizione con fermezza, in ogni sede istituzionale.

La procedura del T.S.O. disciplinata dalla legge Basaglia

Secondo la legge Basaglia 180/78, il T.S.O. si deve attuare «nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura». L’individuo ha diritto di comunicare con chi ritenga opportuno. I trattamenti devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. La legge prevede infine tali trattamenti esclusivamente in presenza di 3 condizioni:

che la persona sia in fase acuta di “malattia mentale”;

che la persona si rifiuti di curarsi;

che per la persona non esistano alternative al ricovero ospedaliero.

In base alla legge 180 del 13 maggio 1978:

Art. 1 – Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori

Nei casi di cui per legge e in quelli espressamente previsti da leggi dello Stato possono e essere disposti dall’ autorità sanitaria nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura. […]

Art. 2 – Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori per malattia mentale. Comma 1

[…] la proposta di un trattamento sanitario obbligatorio può prevedere che le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistano alterazioni psichiatriche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere.

Art. 4 – Revoca e modifica del provvedimento di trattamento sanitario obbligatorio – Comma 7

Chiunque può rivolgere al sindaco richiesta di revoca o di modifica del provvedimento con il quale è stato disposto o prolungato il trattamento sanitario obbligatorio. […]

La legge n° 180 del 13 maggio 1978 confluì successivamente quasi per intero nella legge n° 833 del 23 dicembre 1978, con la quale veniva istituito il Servizio Sanitario Nazionale. Ne riportiamo qui di seguito alcuni stralci, da noi ritenuti significativi.

Art. 1 –tra i princìpi dell’art.1:

• La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale.

• La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana.

• Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. […]

Art 2.- Gli obiettivi

[…] La tutela della salute mentale privilegiando il momento preventivo e inserendo i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione pur nella specificità delle misure terapeutiche, e da favorire il recupero ed il reinserimento sociale dei disturbati psichici. […]

Art. – 64. Norme transitorie per l’assistenza psichiatrica

E’ in ogni caso vietato costruire nuovi ospedali psichiatrici, utilizzare quelli attualmente esistenti come divisioni specialistiche psichiatriche di ospedali generali, istituire negli ospedali generali divisioni o sezioni psichiatriche e utilizzare come tali divisioni o sezioni psichiatriche o sezioni neurologiche o neuro-psichiatriche.

Elettroshock

Gli abusi della psichiatria sono numerosi ed è necessario che le associazioni per i Diritti Umani vigilino affinché non si verifichi impunemente il ricorso a pratiche coercitive e lesive della dignità della persona: contenzione fisica, segregazione in ambienti chiusi, videosorveglianza. Ma uno dei più gravi rischi di abuso psichiatrico va identificato – accanto al contenimento farmacologico (uso di terapie a base di psicofarmaci) – nel ritorno al ricorso della pratica dell’elettroshock. L’elettroshock consente notevoli risparmi alla sanità, ma è scientificamente provato che trattare con scosse elettriche il cervello di un essere umano è causa di un grave danneggiamento delle cellule cerebrali e della memoria. Il fatto che tale terapia possa essere legalizzata non la rende affatto etica né utile sotto l’aspetto curativo.

La terapia elettroconvulsivante (TEC), comunemente nota come elettroshock, è una tecnica terapeutica, basata sull’induzione di convulsioni nel paziente successivamente al passaggio di una corrente elettrica attraverso il cervello. La terapia fu sviluppata e introdotta negli anni ‘30 dai neurologi italiani Ugo Cerletti e Lucio Bini.
L’elettroshock consiste nel far passare la corrente elettrica attraverso 2 elettrodi posti sulle tempie, nel cervello. Cerletti (avendo osservato che gli epilettici dopo i loro attacchi erano più tranquilli) decise di provocare crisi convulsive negli schizofrenici; dopo accurate ricerche sui maiali tramortiti, nei mattatoi di Roma, pensò di utilizzare la corrente elettrica per la prima volta su un uomo nel 1938 facendo passare tra 2 elettrodi, posti alla base del cervello, una corrente alternata di voltaggio compreso tra 50 e 150 volts, di intensità 200 milliamper. Naturalmente questo passaggio di corrente stravolge, almeno momentaneamente, l’equilibrio celebrale. Si perde conoscenza e si hanno delle convulsioni. Oltre ai rischi menzionati, è scientificamente accertato che il passaggio delle correnti attraverso i centri nervosi può provocare l’arresto del cuore o della respirazione, con conseguenze anche mortali. Poiché la scarica provoca anche consistenti perdite di memoria, inebetimento e altri danni irreversibili, è paradossalmente possibile che il «paziente» si senta un po’ meglio. Se infatti si dimenticano i motivi della propria tristezza, si è meno tristi. Si ricorre a questa ”terapia” dopo che quelle farmacologiche si sono dimostrate inefficaci.
Il problema della “salute mentale” non può rimanere irrisolto: nella circolare del 2-12-96 il ministro Rosy Bindi “consigliava” la reintroduzione della TEC come “trattamento di prima scelta” nei casi di depressione, schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, gravi disturbi mentali in corso di gravidanza e psicosi puerperali, eccetera. La circolare omette volutamente di accennare al fatto che il “paziente”, secondo la legge, prima di sottoporsi a TEC dovrebbe dare il proprio consenso informato. D’altronde, che valore può avere il consenso di colui il quale è considerato incapace di intendere e di volere? E’ tale la “necessità” di cambiare la testa del ricoverato che il rischio della sua morte è messo in conto. Gli psichiatri sanno che esiste quest’eventualità, ma vanno avanti; meglio un cervello distrutto che un cervello “attivo”.

Ci si premunisce legalmente facendo firmare ai parenti l’autorizzazione al trattamento della TEC, così che in caso di morte la responsabilità non è dello psichiatra ma dei parenti che hanno approvato il trattamento.
Attualmente la TEC è utilizzata prevalentemente nel trattamento della depressione grave, in particolare nelle forme complicate da psicosi. (NIH & NIMH Consensus Conference, 1985; Depression Guideline Panel, 1993; Potter & Rudorfer, 1993). Può essere impiegata anche in casi di depressione grave in cui la terapia con antidepressivi ripetuta e/o la psicoterapia non si sono rivelati efficaci. (Potter et al., 1991; Depression Guideline Panel, 1993), nei casi in cui queste terapie siano inapplicabili o quando il tempo a disposizione è limitato (per esempio nei casi di tendenze suicide).
Altre indicazioni specifiche si hanno nei casi di depressione associata a malattie o gravidanza, in cui la somministrazione di antidepressivi può essere rischiosa per la madre o per lo sviluppo del feto. In questi casi, dopo avere attentamente valutato il rapporto costo/benefici, alcuni psichiatri ritengono la terapia elettroconvulsivante la soluzione migliore per la depressione grave.

In alcuni casi la TEC è anche usata per trattare le fasi maniacali del disturbo bipolare e condizioni non comuni di catatonia.
In Italia il riferimento principale è la circolare del Ministero della Salute del 15 febbraio 1999. La TEC “deve essere somministrata esclusivamente nei casi di episodi depressivi gravi con sintomi psicotici e rallentamento psicomotorio”, dopo avere ottenuto il consenso informato scritto del paziente, al quale devono essere esposti i rischi ed i benefici del trattamento e le possibili alternative. L’applicazione dello shock deve, per legge, avvenire su paziente incosciente per l’effetto di anestetici e trattato con rilassanti muscolari per controllare le contrazioni muscolari.

Ritalin (metilfenidato)

Negli anni ‘80 negli Stati Uniti e successivamente in Europa moltissimi bambini, definiti “malati”, hanno cominciato a sviluppare una “sindrome” che li rendeva eccessivamente distratti a scuola, troppo vivaci e iperattivi; tale “patologia” veniva riscontrata da molti psicologi e psichiatri sulla base di un questionario sulla cui affidabilità scientifica si sono accese violente polemiche.

La patologia o sindrome che dir si voglia, come è stata classificata da una parte della medicina ufficiale, si chiama ADHD (Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività) di cui pare siano risultati affetti migliaia di bambini: solo negli anni ‘70 negli USA si sono riscontrati 150 mila casi, cifra che è aumentata a partire dagli anni ‘80 arrivando a punte di 11 mila nel 2003. Presto, l’ADHD ha iniziato a valicare i confini nazionali e si è estesa in Canada con 1.200 casi riscontrati, in Gran Bretagna, in Spagna e in Italia. Secondo alcuni studi, la sindrome può essere curata attraverso una farmaco chiamato Ritalin (o più tecnicamente metilfenidato), uno psicofarmaco potentissimo, affine per composizione alla cocaina e di cui il Comitato Olimpico Internazionale ne vietò in passato la somministrazione agli atleti poiché aumentava eccessivamente le prestazioni fisiche.

Presto, in molti paesi tra cui l’Italia, il farmaco dei miracoli è stato adottato dagli enti sanitari in molte scuole e, nel nostro paese, il Ministero della Salute ha perfino avviato l’inaugurazione di alcuni centri regionali per la somministrazione del farmaco nei casi sospetti.

Secondo studi più recenti i bambini affetti dall’ADHD in Italia sarebbero tra il 3 e il 5 % e la patologia, se non curata in tempo, rischierebbe di procurare disturbi psico-socio comportamentali nell’età adulta. Senza contare il disagio che provoca nel bambino e all’interno della comunità scolastica e familiare. Stupisce però che si voglia ricorrere a psicofarmaci e si scartino terapie pedagogiche alternative che possano risolvere efficacemente il problema, tanto più che alcuni psicologi statunitensi ed europei hanno molti dubbi sull’effettiva esistenza medica dell’ADHD.

Come ha dichiarato il dott. David Fosser, rappresentante dell’Associazione Americana degli Psichiatri e accesso sostenitore del farmaco, sembrerebbe difficile diagnosticare la presenza dell’ADHD nell’arco di 10 minuti di seduta con il bambino, come solitamente accade dopo che casi sospetti vengono segnalati allo psicologo scolastico. Negli Stati Uniti il 50% delle diagnosi risulterebbe errata perchè effettuate per la maggior parte dal medico di famiglia. La definizione dei sintomi dell’ADHD è, inoltre, molto generica e i criteri impiegati per definirla molto “elastici”, il che non dimostra con certezza l’esistenza di tale patologia.

E’ risaputo, infatti, che i bambini affetti dall’ADHD presentano strutture sensoriali più sviluppate rispetto alla norma, percepiscono cioè suoni, rumori, sensazioni tattili in misura maggiore e questo li rende più facilmente soggetti a distrazione e perdita di attenzione. Si direbbe, inoltre, che questi bambini sviluppano una inclinazione naturale verso le arti e la pittura: pare, infatti, che tra le persone famose verosimilmente affette da questa sindrome ci siano Wiston Churchill, Agata Christie, Ernest Hemingway, Leonardo Da Vinci, Galileo Galilei, Lewis Carrol, Pablo Picasso, Isaac Newton, Steven Spielberg, Jhon Lennon ed Edgar Allan Poe.

Secondo un rapporto del National Institute of Mental Health pubblicato nel 1999, il metilfenidato e gli altri stimolanti somministrati in questi casi, sopprimerebbero i sintomi dell’ADHD ma non ne curerebbero le cause; anzi, la loro somministrazione comporterebbe una maggiore dipendenza dai farmaci del soggetto in età adulta. Secondo Peter Breggin, psicologo e psichiatra statunitense, tali psicofarmaci creano dipendenza nei soggetti trattati e una maggiore induzione all’omicidio e al suicidio in età adulta. In un rapporto reso noto dalla DEA, nel 1995 i ricoveri per abuso di Ritalin nello stato del Texas sono stati pari a quanti ne fecero per abuso di cocaina.

Gli effetti da metilfenidato o Ritanil furono riscontrati per la prima volta da Tom Wolfe osservando i comportamenti che droghe simili avevano sul movimento psichedelico-hippie degli anni ‘60. Secondo lo studioso, infatti, che a quel tempo stata lavorando allo sviluppo del farmaco, quei giovani erano in preda a un vero e proprio “delirio da Ritalin”. Ma c’è di più: sempre negli stessi anni in Dipartimento dell’Istruzione degli USA mise appunto un programma di percorsi educativi differenziati per i bambini affetti dall’ADHD, stanziando per questo dei fondi federali. Improvvisamente, le diagnosi sono aumentate del 21% mentre nelle scuole sono cominciate a circolare “specialisti” del farmaco che distribuivano volantini ai genitori recanti informazioni sulle miracolose potenzialità del Ritalin. La National Alliance for Mental Health pare sia oggi molto attiva nel far approvare nelle scuole di tutto il Paese presidi per trattamenti sanitari obbligatori. Inutile dire che gli incassi delle case farmaceutiche produttrici del farmaco sono alle stelle: negli anni ‘90 le vendite del farmaco sono aumentate del 600% perché un’intera generazione di bambini americani li assume su ricetta medica. Come ha dichiarato Peter Breggin: “E’ importante che si capisca che tali diagnosi è stata sviluppata esclusivamente allo scopo di giustificare l’uso di tali sostanze”.

Ma se negli Stati Uniti si diffonde la polemica, in Italia se ne richiede l’importazione. E’ il Dipartimento del farmaco del Ministero della Sanità che si rivolge alla Novartis, multinazionale titolare e produttrice del Ritanil, e che si fa portavoce di questa richiesta.

Per contribuire al dibattito sui rischi legati all’introduzione del Ritalin nelle farmacie italiane (e quindi nelle scuole), quale terapia farmacologica della cosiddetta “Iperattività o sindrome da disturbi dell’attenzione”, riteniamo importante sottolineare la nostra ferma opposizione all’uso di farmaci che alterino pericolosamente la chimica del cervello, quando esistono efficaci teorie e pratiche pedagogico-didattiche in grado di contribuire al superamento di tali, onde evitare la psichiatrizzazione permanente dei bambini.

Morti per Trattamento Sanitario Obbligatorio

Di seguito, seguono alcuni casi documentati di morti per Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Il 12 giugno 2007 muore a Empoli per arresto cardiocircolatorio Roberto Merlino, 24 anni. Dopo essersi sentito poco bene durante una festa, arrivato al pronto soccorso dell’ ospedale chiede agli pischiatri di poter essere ricoverato (4 giugno), con la speranza di ricevere un beneficio psicologico.

Il giovane viene subito sottoposto a una intensa terapia a base di farmaci neurolettici-neuroplegici, finalizzati solo al contenimento psicofisico della persona. La terapia neurolettica a cui è sottoposto Merlino provoca un vistoso e pesante rallentamento di tutti i suoi movimenti e aggrava così fortemente il suo malessere fisico e psicologico che gia al secondo giorno di ricovero, martedi 5 giugno, egli chiede agli psichiatri del reparto di essere dimesso e di poter tornare a casa. Gli psichiatri del reparto SPDC dell’ ospedale S. Giuseppe gli rispondono di essere contrari alla sue dimissioni: pertanto, al fine di trattenerlo nel reparto contro la sua volontà, chiedono e ottengono di trasformare il suo ricovero da volontario a obbligatorio. E così da martedì 5 le terapie nuerolettiche a cui viene sottoposto Merlino diventano coercitive, peggiorando ulteriormente le sue già precarie condizioni psicologiche. Dopo 7 giorni di tale trattamento pseudo-sanitario, all’alba di martedi 12 Roberto Merlino muore improvvisamente nel suo letto (in reparto psichiatrico) per arresto cardiocircolatorio.

Il 26 maggio 2007, muore a Bologna Edmond Idehen, nigeriano di 35 anni; l’uomo si era sottoposto volontariamente alle cure, ma alla richiesta di poter andare a casa i medici hanno deciso per il T.S.O. e chiamato la polizia in seguito alle sue insistenze. Le indagini sulla sua morte sono ancora in corso; la versione ufficiale parla di una crisi cardiaca avvenuta mentre infermieri e poliziotti tentavano di portare l’uomo sul letto di contenzione (la sorella di Edmond ha ripreso tutta la scena col telefono cellulare).

Il 28 agosto 2006 muore a Palermo A.S., donna di 63 anni entrata in reparto psichiatrico il 17 agosto e qui trattenuta per accertamenti; dopo alcuni giorni di stato comatoso (dal 25 al 27) la donna si sarebbe risvegliata, per morire nella notte tra il 28 e il 29 agosto.

Il 21 giugno 2006 muore a Cagliari, in seguito a una tromboembolia venosa, Giuseppe Casu, venditore ambulante, ricoverato con un T.S.O. nel reparto psichiatrico di Cagliari. E’ morto dopo essere rimasto legato mani e piedi al letto per 7 giorni, sedato farmacologicamente. I medici che lo hanno sottoposto al Trattamento Sanitario Obbligatorio sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo.

Altri casi di abuso documentati

Anche durante eventi di protesta politica si sono verificati casi di T.S.O. Per esempio, un seguito agli scontri avvenuti a Genova durante il G8.

Paola Sbronzeri è un’ impiegata alle Poste Italiane, impegnata sindacalmente, che ha trovato il coraggio e la forza di opporsi al trattamento, e a cercare di scrollarsi di dosso l’imposizione agli psicofarmaci che le sono stati imposti obbligatoriamente da quando ha compiuto due anni fa un piccolo gesto autolesivo, senza precedenti né seguito alcuno.

Pietro, su Indymedia Italia, 22 Novembre 2002, rilascia la seguente testimonianza:

In seguito a una crisi isterica con urla, avvenuta nel pronto soccorso del S. Spirito in Roma 4 anni fa, sono stato sedato con dosi tali di Serenase da essermi svegliato dopo tre giorni. E non avevo avuto alcun comportamento violento, neanche violenza verbale. Quando mi sono svegliato, le dosi massicce del tranquillante mi impedivano di parlare correttamente. Non riuscivo a capire dove mi trovavo, né riuscivo a chiederlo. E nessuno, tra l’altro, mi informava di nulla. E qui ho avuto un momento di violenza, per la prima volta. Solo dopo molte ore mi hanno informato che il mio era un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Nessun contatto con uno psicoterapeuta. Nessuno a chiedermi quale era stata la mia vita, quali potevano essere stati i miei problemi. Ho letto mesi dopo la scheda che hanno scritto su di me: episodi completamente inventati, interi periodi della mia vita. Ho vissuto diverso tempo in occupazioni e centri sociali, nella scheda era scritto che avevo vissuto sotto i ponti. Questi dati li hanno ottenuti tramite domande fatte di fretta ai miei genitori quando mi hanno ricoverato. Lo psichiatra controllava solo i valori del mio sangue, e aggiustava le dosi degli psicofarmaci. Con lui nessun contatto; gli unici contatti con infermieri, che spesso ci trattavano come cani. Quando chiedi qualcosa a una persona e questa neanche gira lo sguardo, allora ti senti un cane che abbaia. Dopo le ore 21 niente sigarette. Io e un altro ragazzo una sera volevamo assolutamente fumare, ma gli unici accendini li avevano gli infermieri. Dopo un po’ sono andato a letto, ma mi sono svegliato subito, perché il mio amico nel corridoio protestava a voce sostenuta: erano le 22, e lui pretendeva di fumarsi una sigaretta. Apro la porta, vedo due infermieri che bloccano il mio amico (che stava solo parlando), lo cappottano a terra, gli stringono il collo come a strangolarlo. Poi mi invitano a tornare nella mia camera. Il giorno dopo, e per tre giorni, Daniele non riusciva a parlare. Serenase.

Camere da letto strette, e un’unica sala per una quarantina di persone. Le finestre sono oscurate e sempre rigorosamente chiuse. Quando mi hanno ricoverato la seconda volta non ho visto il cielo per 24 giorni. Naturalmente l’ora d’aria non è prevista. Un infermiere una volta mi ha raccontato che la finestra non si apriva per il rischio di suicidi. Ma credo che molte volte sia il T.S.O. a indurre a desideri di morte. La repressione psichiatrica è una forma pericolosissima di nazismo. Non riguarda la schiavitù dei corpi, ma una schiavitù ancora più profonda e perversa. Una schiavitù che annichilisce il tuo pensiero, che controlla le tue emozioni, che decide i tuoi stati d’animo. Senza curare nulla. Il principio è questo: ti fa male un braccio? Tagliamolo! Ti prude un’orecchia? Tagliamola! Hai un problema mentale? Cuciamo quella metà del tuo cervello che ti crea disturbo… che importa se sei diventato uno zombie, tanto eri incurabile, un caso disperato. Per la psichiatria organicista tutte le persone che danno segno di squilibrio sono incurabili, e attraverso gli psicofarmaci vanno “cucite”. Dopo 24 giorni di T.S.O. sono riuscito a patteggiare una pena: trasferimento in una clinica psichiatrica sovvenzionata dallo stato. E così ho passato due mesi di ricovero coatto nella famigerata Villa Armonia. Andandoci speravo di giovarmi di qualche passeggiata in un giardinetto e di un pochino più di spazio. A Villa Armonia mi sono trovato fra gli zombie. Gente vittima di anni di psicofarmaci in dosi massicce, e forse ormai veramente divenuta irrecuperabile. Un ragazzo diventato adulto che aveva avuto delle strane percezioni, qualche squilibrio. Laureato in filosofia. Diventato down dopo dieci anni di esperimenti chimici sul suo cervello. La mia diagnosi era “sovraeccitazione maniacale”, un disturbo assai frequente fra i “border-line”, che oscillano tra depressione ed euforia. A Villa Armonia mi somministravano il Leponex, un farmaco che si dà agli schizofrenici gravi, dopo che su di loro è fallita ogni altra cura. Fra gli effetti indesiderati erano segnalate “morti improvvise e senza spiegazione”. Questo farmaco non corrispondeva alla mia diagnosi, però mi è stato ingiunto, una volta uscito, di prenderlo per 5 anni. Altrimenti avrei avuto sicuramente un’altra crisi, e questa volta mi avrebbero rinchiuso per venti anni. Si trattava di un esperimento o di cosa?

Perché gli psichiatri giocano, si divertono. Le loro cavie sono i matti, gente perduta e senza valore, che al limite si può addormentare, così non fa casino.

Ho avuto l’immensa fortuna di entrare in contatto con Giorgio Antonucci, ormai vecchio. Antonucci è un medico rinomato, un’antipsichiatra che per decenni ha preso in mano i reparti dove erano ricoverati i casi più gravi, ottenendo risultati ottimi, sorprendenti (a differenza degli organicisti). Senza usare farmaci, lobotomie, elettroshock o camice di forza. Usando solo l’ascolto profondo, cercando di leggere la radice dei problemi, senza rovinare a vita le persone che hanno bisogno solamente di una mano affettuosa e di tanta comprensione. Antonucci mi ha ingiunto di sospendere gradualmente il Leponex, che mi avrebbe potuto procurare danni irreversibili. Da tre anni non vedo psichiatri, ho sospeso i farmaci e sono guarito. Grazie a una ragazza che mi ha voluto bene, grazie a tanta autocritica, grazie a un modo più equilibrato di affrontare la vita. Grazie al fatto che non fumo più venti canne al giorno e non mi prendo più acidi o pasticche, e grazie anche al litio, che è un sale minerale e non uno psicofarmaco. Ma grazie soprattutto al fatto che sono riuscito a divincolarmi dalle mani degli psichiatri organicisti, che veramente hanno condotto la mia vita all’orlo di un baratro.

Il caso di “M.”, 44 anni, di Livorno, dal 7 febbraio 2008 al vaglio di indagini e accertamenti da parte del Gruppo EveryOne

Giovedì 7 febbraio il signor M., 44 anni, ha subito un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) all’ SPDC di Livorno, notificatogli dopo una settimana di ricovero volontario, in risposta alle sue ripetute richieste di dimissioni.
Il signor M. è un ex paziente del CSM di Livorno che, stanco della pesante terapia farmacologica a cui era stato sottoposto e grazie a un medico di Firenze, era riuscito a staccarsi dal Servizio di Salute Mentale, concordando una terapia meno invasiva.

La sua drammatica vicenda iniziava il 30 gennaio, quando la dottoressa del CSM, forse dietro richiesta della famiglia – così come è stato riferito dagli attivisti del centro Artaud di Pisa – disponeva un ASO (Accertamento Sanitario Obbligatorio) a seguito del quale il signor M. veniva trasferito, accompagnato da agenti della Polizia Municipale, a bordo di un’ambulanza, al CSM.

Durante il colloquio con la dottoressa, il paziente accettava di farsi ricoverare volontariamente presso il decimo reparto di psichiatria di Livorno, consapevole del rischio di un ricovero coatto se si fosse rifiutato.

Tuttavia il ricovero coatto è avvenuto ugualmente nel momento in cui il paziente, chiedendo di visionare la sua cartella clinica per informarsi sul regime del suo ricovero e sulla sua terapia farmacologica, si è visto negare tale richiesta dagli infermieri.

Da quel momento, il paziente esprimeva più volte e chiaramente ai medici la volontà di firmare la dimissione dal ricovero e di uscire, come previsto dalle legge 180 (legge Basaglia del 1978), ma i medici non glielo consentivano, minacciando di trasformare il ricovero da volontario in obbligatorio, così come è effettivamente avvenuto il 7 febbraio, in presenza di due giornalisti, del suo medico esterno, del suo legale e degli attivisti del centro Artaud di Pisa. Il Gruppo EveryOne ravvisa una procedura non corretta nei confronti del signor M. e intende svolgere indagini riguardo a questo caso, auspicando di incontrare la piena collaborazione delle autorità, anche in virtù delle recenti raccomandazioni che il Parlamento Europeo ha inoltrato agli Stati membri, affinché le autorità collaborino sempre con i gruppi che tutelano i Diritti Umani, affinché le loro indagini facciano luce su eventuali abusi. Nel caso in cui il Gruppo EveryOne incontrasse difficoltà o resistenze da parte delle autorità civili e mediche coinvolte attivamente nel caso del signor M., la vicenda sarà segnalata alla Commissione Europea e al Consiglio d’Europa affinché le Istituzioni continentali prendano i provvedimenti del caso al fine di tutelare i diritti di paziente e di essere umano del signor M. e di ripristinare una corretto e volontario sostegno sanitario – ove necessario e richiesto – nei suoi confronti.

 

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