Questione meridionale,
reti clientelari e sviluppo economico
La questione meridionale pesa come un macigno sulle riflessioni dedicate allo sviluppo socioeconomico nazionale, eppure la si affida spesso al silenzio. Il sud è stato interpretato ora come “vincolo”, ora come “risorsa”, o – per ricorrere ad un’altra frequente contrapposizione – ora come “condizione”, ora come “funzione” dello sviluppo. Fatto sta che gli strumenti analitici ed interpretativi che si sono succeduti nei 150 anni unitari sembrano oggi inefficaci a cogliere l’attualità della quistione (come dicevano i primi meridionalisti). Le motivazioni sociali, economiche e politiche che forgiano le condizioni meridionali odierne appaiono lontane dall’essere indagate a fondo: le teorie e gli strumenti d’osservazione utilizzati, restituiscono un’immagine del mezzogiorno sempre più sfocata: le tendenze del cambiamento sociale e della crescita economica sono lette dal maintream in modo incompleto e inappropriato[1]. In questa situazione è comprensibile che ci si rivolga al passato con una certa nostalgia[2]. Ma perché il dibattito di allora – quando le scienze sociali avevano a che fare con teorie e paradigmi forti – era “superiore”? Probabilmente perché le correnti storiche che si sono poste il problema del sud, sia liberali (Croce, Chabod, Romeo) che marxiste (Gramsci, Sereni, Daneo), avevano ben chiaro che la questione non poteva che essere letta in relazione alle trasformazioni dello sviluppo capitalistico nazionale. Al centro delle analisi stava il legame mezzogiorno – sviluppo capitalistico; a partire da questo rapporto venivano ricercate le cause, le conseguenze e le possibili soluzioni del dualismo che accompagna l’Italia dalla sua costituzione[3]. In questa prospettiva l’intervento pubblico rappresenta la faccia politica della formazione del moderno capitalismo industriale, che si è avuta in modo antagonistico come sottolinea Rosario Romeo :
«[C]on la tariffa del 1887, non solo venne ripreso sotto nuova forma quel processo di sfruttamento dell’agricoltura a vantaggio dell’industria e della città in genere, che nei primi decenni dell’unità era avvenuto essenzialmente attraverso il fiscalismo statale e il contenimento dei consumi rurali; ma vennero generalmente aggravati e approfonditi i caratteri antagonistici del processo attraverso il quale si era compiuta l’Unità nazionale, tra città e campagna, tra Nord e Mezzogiorno. E volle dire, tutto questo, accentuazione non solo della inferiorità economica del sud, ma anche del suo scadimento sociale e civile, e della miseria e della sofferenza delle genti meridionali, che avrà la sua espressione più vistosa nel grande dramma dell’emigrazione, ma che si rinnova ogni giorno nella vita di tanti borghi e città, o pseudocittà, sparse per le assolate campagne del sud. … Ma accanto e al disopra di tutto questo e giocoforza ricordare che, proprio in virtù del sacrificio imposto per tanti decenni alla campagna e al mezzogiorno un paese povero di territorio e di risorse naturali e sottoposto ad una fortissima pressione demografica come l’Italia è riuscito, unico tra quelli dell’area mediterranea, a creare un grande apparato industriale e una civiltà urbana altamente sviluppata»[4].
Le relazioni antagonistiche caratterizzano anche l’altro “passaggio” cruciale del capitalismo nazionale, quello del secondo dopoguerra. Anche qui nel giro di pochi anni un nuovo processo d’accumulazione investì il Mezzogiorno: la produzione agricola aumentò incredibilmente, di pari passo con il rivoluzionamento delle tecniche produttive e dei rapporti sociali tradizionali.
Il modello preso a riferimento per compiere e legittimare il “decollo” verso l’industrializzazione fu quello della modernizzazione – una teoria dominante nelle scienze sociali occidentali, che ha rappresentato per decenni il modo “corretto” di leggere i cambiamenti socioeconomici a livello globale. Ancor prima, la modernizzazione è stata una politica di sviluppo, un modo di comandare sugli stati e le popolazioni attraverso l’esportazione del processo d’accumulazione laddove non si era ancora compiuto nei termini industriali moderni. Secondo la celebre nota di Talcott Parsons, i modernizzatori erano convinti che «la modernità nasce sulle ceneri della tradizione»; e contro le tradizioni lottarono per mezzo del mercato e della democrazia delegata, nei paesi fuoriusciti dal conflitto bellico come nei paesi di nuova indipendenza, come nelle aree arretrate interne a paesi avanzati, ancora soggette a modi di produzione e tecniche produttive pre-industriali. In modo schematico: la modernizzazione concepiva (e concepisce) lo sviluppo come un processo unico e valido per tutti i sistemi sociali.
Nello specifico del Mezzogiorno la modernizzazione prese inizialmente le mosse dalla teoria economica dello “sviluppo equilibrato”. Secondo questa impostazione per impiantare una qualsiasi industria – e per far sì che questa produca i risultati attesi – oltre ai capitali investiti nell’impianto necessitano altri capitali da investire nella “tonificazione” dell’ambiente. Nel primo decennio dei piani di sviluppo le programmazioni si concentrarono su queste migliorie e mostrarono da subito una straordinaria capacità di trasformazione: il mezzogiorno tradizionale cessa di esistere, mentre comincia a prendere fisionomia, sulla base riproduttiva della pubblica amministrazione e dei servizi, un nuovo Mezzogiorno cittadino nel quale il governo politico nazionale (che stabilisce le direzioni dei flussi monetari e finanziari) ed i poteri locali (che stabiliscono i beneficiari dei flussi) la fanno da padrone.
I mutamenti generati dall’intervento straordinario impongono, sul finire degli anni cinquanta, un cambio di prospettiva: in questo periodo si mette in soffitta l’approccio dello sviluppo equilibrato e comincia il periodo dello “sviluppo squilibrato”. Questa seconda versione teorica della modernizzazione sosteneva che il processo d’industrializzazione si sarebbe diffuso dai “punti alti” (dove cioè erano già presenti realtà industriali attive) verso gli altri territori. Il “piano” del resto dopo i primi sette anni divenne uno strumento clientelare a tutti gli effetti. Fu subito evidente, in questo senso, la particolare duttilità che aveva nel combinare la stabilità elettorale e la pace sociale. Lo sviluppo economico venne allora subordinato al progetto di mediazione politica e gli obiettivi realmente perseguiti divennero altri rispetto a quelli realmente praticati. Non è un caso, come ricorda Augusto Graziani, che i poli di sviluppo effettivi furono tre o quattro, mentre sotto il profilo amministrativo, tra aree e nuclei, ne sorsero almeno un centinaio.
Dagli anni ’70 la sovra-determinazione politica degli obiettivi di sviluppo economico fu progressiva e, nel decennio successivo, diventò totale: con sempre maggiore ostinazione venne perseguita una politica di sussidi ed assistenza ed abbandonato il sostegno agli investimenti produttivi.
Oggi che l’ equazione “industria=sviluppo economico” non è più cosi nitida, è ancora più importante mettere a fuoco il rischio della gestione clientelare. Rispetto al passato le reti locali di potere nel meridione sono più deboli, proprio perché non hanno a che fare solamente con piani nazionali di sviluppo ma sono costrette a rapportarsi con una dimensione sovranazionale verso la quale non hanno la stessa aderenza. Se fino agli anni ‘80, infatti, tali reti sono riuscite “straordinariamente” bene a coniugare gli interessi dei poteri locali con quelli statali – garantendo coesione sociale, governabilità del territorio e stabilità elettorale – con la fine dell’intervento straordinario, l’instaurarsi della seconda repubblica e la nuova dimensione europea, le cose in parte cambiano. Nuovi attori, nuove regole, e soprattutto il fatto di non avere più una “cassa” alla quale attingere, hanno causato una serie di problemi sconosciuti a chi, abituato a muoversi con disinvoltura nella acquisizione e gestione dei trasferimenti nazionali, si è trovato imbrigliato nei vincoli per l’utilizzo dei fondi strutturali per le aree obiettivo 1. Dal decennio ’90 le reti clientelari sono state costrette a diventare più selettive, a riorganizzarsi in molte funzioni e attività, a ricalibrare alcune azioni al fine di ridurre le complessità del nuovo corso. In questa nuova stagione, solitamente, sono cambiati i contesti e le modalità della politica clientelare, raramente i contenuti e i soggetti dello scambio[5].
Riproporre un piano di sviluppo nazionale senza aver prima affrontato questo groviglio sortirebbe l’effetto di ridare linfa e fiato alle reti clientelari (politico, imprenditoriali, sociali) che, seppur affiacchite, sono ancora salde nei posti nevralgici della società meridionale. Esse sono diventate moderne a modo loro, senza nulla cedere ai valori universalistici che – secondo il mainstream – avrebbero dovuto ispirare le loro azioni. E’ in questo ambito che bisogna determinare una modernizzazione. Siamo ancora in un periodo nel quale, per dirla con Augusto Graziani: «i nemici peggiori dello sviluppo produttivo del Mezzogiorno si trovano nel Mezzogiorno stesso»[6].
Nei fatti, dopo un quarantennio di modernizzazione, il sud non è più un’area arretrata nel senso classico dell’espressione: il sud è globalizzato, è finanziarizzato, ed allo stesso tempo è rimasto neofeudale. Costruire un intervento politico segnalando la «necessità di una modernizzazione industriale del Mezzogiorno» presuppone una riflessione approfondita sulle caratteristiche del paradigma tecno-economico oggi dominate. Un piano di sviluppo del Mezzogiorno, oggi, dovrebbe essere formulato a partire da quei settori altamente innovativi, definiti in gergo della “conoscenza”; ma soprattutto dovrebbe essere in grado di mobilitare le soggettività meridionali che dalla grande trasformazione in poi sono incessantemente cresciute. Si tratta di una forza lavoro prevalentemente cognitiva, mobile, flessibile ed altamente cooperativa che, non di rado, è divenuta imprenditrice di se stessa. Un piano dovrebbe predisporre il coinvolgimento di queste soggettività, puntare sulla loro coalizione, sperimentare modalità organizzative innovative, incentrate sulla cooperazione sociale, che si tratti di forme giuridiche associative, cooperativistiche o imprenditoriali.
[1] Un esempio può essere quello del capitale sociale che è stato utilizzato in analisi (sia micro che macro) del Mezzogiorno italiano, dove è stato utilizzato come categoria indicativa delle potenzialità di sviluppo. Da un esercizio svolto per indagare le capacità analitiche ed interpretativa del “nuovo” concetto è emerso che, dal punto di vista metodologico, il capitale sociale è del tutto inutile a discriminare i processi di mutamento sociale che intende spiegare. Come spesso accade agli approcci innovativi – in questo caso alla rielaborazione struttural funzionalista nord americana di un concetto fondamentale della critica scientifica e politica europea dei secoli scorsi – ci si trova davanti un grande contenitore che comprende numerosi fenomeni contrastanti ed ambivalenti, che possono favorire i processi di sviluppo o pesantemente bloccarli. Cfr. F.M. Pezzulli, “Il Capitale sociale: una potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno?” in Daedalus. Quaderni di storia e scienze sociali, n. 18, 2003 – 2004.
[2] Cfr. C. Vita, “Il dualismo Nord – Sud fa passi indietro nella storia”, in economiaepolitica del 09 novembre 2013
[3] Il dualismo è stato un tema costante del meridionalismo. Il concetto non è sinonimo di divario economico, in quanto considera l’Italia composta da due economie (due società) differenti ma non separate. In tal senso, il dualismo serve per individuare le differenze tra sud – centro – nord sulla base dei principali indicatori economici ma ha principalmente un significato politico, volto ad individuare e spiegare il nesso (economico politico) che le unisce e le tiene insieme, nonostante una parte subordini e sia antagonista di un’altra.
[4] R. Romeo, Risorgimento e Capitalismo, Laterza, Bari 1978. cit. pag. 179-180.
[5] Corte dei conti corruzione.
[6] Augusto Graziani, I conti senza l’oste. Quindici anni di economia italiana, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Cit. pag. 161.
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