Può questa Europa essere pro-Labour?
Partiamo dalla Costituzione Italiana
La costituzione Italiana è una costituzione molto progressista, pro-labour, una delle più progressiste in Europa, orientata al lavoro, alla protezione dell’impiego, all’iniziativa pubblica, alla costruzione di un welfare state, alla rimozione degli ostacoli economici e sociali per la realizzazione di una una democrazia sociale oltre che verso un notevole progresso civile.
I trattati di Roma del 1957 non intaccarono questa costruzione sociale e democratica, ed anche se perfino questo punto è controverso, c’è un grande consenso tra gli studiosi verso questa posizione.
Ciò che invece sembra in contrasto con quanto la nostra Costituzione asserisce sono le regole dettate dal Trattato di Maastricht e dai successivi trattati, sottoscritti durante la crisi, che restringono ancor di più i margini dello Stato per realizzare quanto la nostra costituzione afferma. Non è mia intenzione in questa sede dimostrare da un punto di vista giuridico incostituzionalità formale del trattato di Maastricht rispetto alla nostra costituzione. Ciò che invece metto in discussione è la sostanza delle due costruzioni istituzionali, e la contraddizione tra gli obiettivi dell’una e dell’altra: le aspirazioni sociali, democratiche e progressiste della nostra costituzione sono fortemente limitate dal trattato di Maastricht.
Maastricht: il battesimo del modello ordoliberale nell’Unione Europea.
Con il trattato di Maastricht l’Europa e più in particolare l’Area-Euro introduce a mio parere un disegno ordoliberale, che può essere definito in modo neutrale come minimo come segue:
- con regolamentazioni su impresa e commercio, pensate per proteggere la concorrenza;
- con una politica fiscale responsabile per mantenere il pareggio di bilancio;
- con una politica monetaria sotto la responsabilità di una banca centrale indipendente col compito di tenere bassa l’inflazione e di mantenere la stabilità monetaria;
- con privatizzazioni di servizi e di beni pubblici, antitetici al progetto di concorrenza perfetta;
- con la riduzione dell’intervento pubblico nell’economia ma il mantenimento di un minimo di protezione sociale (safety net) necessario al mantenimento dell’ordine sociale.
- con una tassazione sempre meno progressiva
- con uno spiccato orientamento verso strategie export-led per spingere la DA
- Con una funzione prioritaria del mercato e del profitto per il funzionamento dell’economia, e con una struttura legale, istituzionale e di diritti di proprietà a vantaggio unicamente di esso, e con uno stato pronto a difendere tale costruzione
Potremmo continuare nella definizione di questo modello che definisce in sostanza la versione europea del modello neoliberale di matrice americana e britannica emersa dalle amministrazioni di Reagan e Thatcher in poi. Diventato noto, a livello internazionale come “Washington Consensus” e “Augmented Washington Consensus” come ci ricordano Williamson (1990) e Rodrik (2004) da cui riprendiamo la tabella riepilogativa di seguito.
Washington Consensus e Augmented Washington Consensus
WHASHINGTON CONSENSUS (1989) | AUGMENTED WHASHINGTON CONSENSUS (2000) |
1) Fiscal discipline | 11) Corporate Governance |
2) Reorientation and reduction of public expenditure | 12) Anti-corruption |
3) Tax reform (no or little progressive rate) | 13) Flexible Labor market |
4) Financial and interest rate liberalization | 14) Adherence to WTO disciplines |
5) Unified and competitive exchange rate | 15) Adherence to international financial codes and standards |
6) Trade liberalization | 16) “Prudent” capital account opening |
7) Openness to FDI | 17) Non-intermediate exchange rate regime |
8) Privatization (state industries are inefficient) | 18) Independent central banks/inflation targeting |
9) Deregulation (excessive regulation causes corruption) | 19) Social safety nets |
10) Secure property rights | 20) Targeted poverty reduction |
Fonte: Williamson (1990) e Rodrik (2004)
In questo contesto, un processo di profondo mutamento ha interessato il mercato del lavoro, in Italia e nei principali paesi industriali. Questo mutamento ha investito sia la dimensione concettuale del lavoro e del mercato del lavoro, sia la dimensione di policy, ed ha riguardato il cambiamento dell’idea di lavoro e dei costi ad esso connessi da fisso a variabile, con il graduale inserimento di maggiori dosi di flessibilità nel mercato del lavoro. A questo cambiamento hanno contribuito diversi fattori:
- Innanzitutto un fattore politico-ideologico che dagli anni ottanta ha investito la maggior parte dei paesi economicamente avanzati. Questo cambiamento avvenne innanzitutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, come detto, con le nuove amministrazioni di Thatcher e Reagan che diedero un impulso fortemente liberista alla gestione dell’economia, seguendo le ricette economiche che si stavano affermando sotto l’egida del pensiero monetarista che aveva ristabilito, teoricamente, la supremazia della teoria neoclassica, anche se in una versione un po’ più caricaturale, su quella keynesiana. Le amministrazioni di Thatcher e Reagan furono capaci di influenzare il dibattito politico internazionale e in una certa misura di orientare il cambiamento grazie anche alle principali organizzazioni internazionali (Fmi, Bm Gatt) suggerendo una agenda di politica economica, frutto prevalentemente della dottrina della Scuola di Chicago, che divenne nota come “Washington Consensus” (Stiglitz, 2002).
- La deregolamentazione finanziaria e la globalizzazione che si è verificata in particolare sotto lo stimolo e le politiche delle due amministrazioni di Reagan e Thatcher di cui sopra, prima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna e in seguito in molte economie avanzate, in via di sviluppo e in transizione, grazie anche all’intervento delle organizzazioni economiche internazionali. La deregolamentazione finanziaria ha contribuito sia ad espandere il capitale globale per la ricerca di maggiori profitti sia ad intensificare la presenza di strumenti finanziari e di speculazione. Conseguentemente questo ha portato ad una cosiddetta finanziarizzazione delle economie avanzate, e ad una compressione dei costi del lavoro.
- La caduta del muro di Berlino nel 1989 (e la successiva dissoluzione dell’ Unione Sovietica nel 1991), che ha portato alla fine della guerra fredda e alla fine della divisione tra Est e Ovest dell’Europa (e più in generale alla divisione tra l’occidente e il resto del mondo) con la significativa inclusione delle ex economie comuniste e anche di quelle cosiddette “non allineate” nell’economia globale (o per essere più precisi, nel sistema economico dell’Europa occidentale, del Nord America e di altre poche economie avanzate). Ideologicamente questo rappresentò la vittoria del capitalismo da una parte, e la fine della spinta propulsiva e welfarista che aveva dominato fino a quel momento nell’Europa occidentale per fronteggiare la minaccia sovietica dell’est.
- Le enormi sfide poste dal progresso tecnologico che hanno portato a internet e alla rivoluzione digitale e a tutte le altre grandi innovazioni introdotte nel settore dei trasporti e nelle telecomunicazioni, e il contribuito a ridurre enormemente i costi di trasporto e favorire il commercio e la globalizzazione.
- Il decollo (durante gli anni 1980 e 1990) di alcuni paesi emergenti che con la riduzione dei prezzi fu funzionale a mostrare gli apparenti vantaggi della globalizzazione. Bisogna ricordare che in questi paesi, fondamentale fu il ruolo dello stato nel promuovere lo sviluppo, dal caso giapponese fino a quello cinese, passando da quello coreano etc.
- Infine, l’approfondimento del processo di integrazione dell’Unione europea, che culminò con il Trattato di Maastricht (1992), e che introdusse insieme alla liberalizzazione del commercio dei servizi, delle merci e del lavoro anche mobilità dei capitali, e attraverso la moneta unica, il cambio fisso, la disciplina di bilancio, la politica monetaria indipendente; in altre parole la replica di una versione del modello tedesco, quello ordoliberale appunto, che si era interrotto con le forte spinte socialdemocratiche dei governi di Brandt e di Schmidt degli anni 70, molto utili in epoca di guerra fredda e di divisione della Germania, ma poco funzionali adesso in una Germania riunita dentro una Europa allargata e integrata anche ad Est.
Quest’ultimo punto è il più importante per noi in questa sede.
Una Europa tedesca?
L’ordoliberalismo fu attaccato pesantemente tra gli anni 60 e gli anni 70 da Brandt e Schmidt (SPD) i quali con il raddoppio della spesa sociale, il credito generoso alle imprese e la Mitbestimmung (cogestione) ebbe una svolta socialdemocratica. Successivamente, però, ed in maniera evidente a tutti dalle riforme Hartz in poi (iniziate dai governi SPD) e durante le amministrazioni Merkel, l’ordoliberalismo ritornò alle origini del pensiero della scuola di Friburgo, del conservatorismo liberale. L’orientamento strategico export-led o modello mercantilista. Questo modello ha prevalso in Europa, soprattutto da Maastricht in poi e più in particolare dall’introduzione dell’Euro. E’ stata anche la guida per la risposta alla crisi recente.
E allora, viene da chiedersi, in quale Europa viviamo oggi? 1. Esiste una Europa Sociale? 2. Esiste un Modello Sociale Europeo? 3. Oppure esiste una Economia Sociale di Mercato? La prima opzione è esclusa, la seconda è un processo difficile da raggiungere. La terza è usata nella retorica comune dai politici UE (da Monti a Barroso ad esempio). Ma Economia Sociale di Mercato altro non è che il modello Ordoliberista, che da Maastricht in poi sembra dominante in UE. La vita dell’euro, dagli anni 2000 in poi, ha coinciso con la supremazia economica tedesca e con la supremazia della nuova versione ordoliberale. L’intervento pubblico deve essere minimo e occuparsi solo di scuola, skills, formazione, quadro legale e minimo safety nets. Storicamente, tuttavia, rimane il vantaggio tedesco e di altri paesi UE che in passato hanno investito molto in welfare e hanno goduto maggiormente dell’intervento pubblico. Al contrario i paesi storicamente più deboli, che non hanno visto una forte espansione welfare, oggi hanno anche lo svantaggio del restringimento operato attraverso l’ordoliberalismo nell’UME.
Il Trilemma dell’Euro Zona
Il modello ordoliberale completa lo spazio economico dell’euro con cambi fissi, mobilità di capitali, disciplina di bilancio e politica monetaria indipendente. L’unica politica libera di essere praticata da parte dello stato nazionale è la politica del lavoro. Si definisce quindi un trilemma, molto chiaro, e di difficile soluzione sui seguenti tre pilastri:
- Cambi fissi
- Deflazione della domanda interna/al posto di politiche fiscali espansive
- Svalutazione interna del lavoro/al posto di progressivi aumenti di salario e occupazione
In sostanza i cambi fissi, ovvero l’adozione dell’euro, in caso di crisi costringe ad una politica fiscale restrittiva, quella che abbiamo conosciuto come austerity (e impedisce una politica espansiva) perché ciò conduce ad una minore domanda di import e migliora la bilancia commerciale. Inoltre crea disoccupazione, salari che scendono, e aumento competitività. In un certo senso dal punto di vista delle istituzioni di Bruxelles questa strategia è razionale e appropriata per migliorare competitività e uscire dalla crisi, anche se con un livello di ricchezza inferiore, ma questo poco importa a Bruxelles. In altre parole, per aumentare competitività spinge verso la svalutazione interna del lavoro, ovvero verso le cosiddette politiche strutturali di flessibilità del lavoro e di tagli e deflazione salariale, come la figura 1 con salari stagnanti per il caso italiano ci suggerisce. Ammesso e non concesso che l’UE permettesse politiche fiscali espansive, con cambi fissi e mobilità di capitali, nell’Europa del Sud, avremmo solo ulteriori deficit nella bilancia commerciale per via dell’aumento delle importazioni e conseguenti ricadute negative sulla domanda aggregata e sull’occupazione. D’altra parte se facessimo svalutazione interna del lavoro (le riforme strutturali ammesse dall’UE, la flessibilità del lavoro, i tagli salariali e i tagli alla spesa sociale e al salario indiretto) otteniamo ciò che stiamo vivendo: cioè ulteriore compressione della domanda aggregata e recessione con un peggioramento del rapporto Debito-Pil ed un aumento delle diseguaglianze. Il QE rimane una politica possibile, ma con scarsissime possibilità di essere di successo come la recente esperienza della politica monetaria di Draghi ha dimostrato.
Mi scuseranno i miei colleghi se non ho fatto altro che esprimere dei principi di Politica economica molto conosciuti, al punto da essere manualistica del primo anno, quello che in effetti insegno al corso di Politica economica. Niente di più.
In sostanza il trilemma cambi fissi – Deflazione della domanda interna – Svalutazione interna del lavoro può essere risolto con:
- L’abbandono dei cambi fissi, e quindi un euroexit, oppure
- Con un bilancio centrale che possa fare politiche espansive nei paesi colpiti da disoccupazione e crisi senza provocare ulteriori deficit commerciali ne compressione della domanda interna.
Altre soluzioni: la mobilità del lavoro o i tagli salariali o non sono risolutivi come ha dimostrato l’esperienza recente, o non sono migliorativi per il lavoro, quindi sono da escludere.
La riduzione dei costi unitari del lavoro, è possibile o con crescenti aumenti competitività e quindi aumento di progresso tecnico e investimenti capital intensive che portano aumenti di gap tra produttività del lavoro e salari monetari, oppure con tagli salariali. Non tutti i paesi possono e riescono ad essere competitivi da abbassare i costi unitari del lavoro, soprattutto se non si possono fare politiche espansive, sostegno alla domanda aggregata, politiche pubbliche di innovazione (le figure 2 e 3 dimostrano quanto i gap di produttività e di costo del lavoro per unità di prodotto, CLUP, si stiano allargando in UE dal 1993 in poi, cioè dal trattato di Maastricht in poi ovvero dal battesimo delle politiche deflazioniste in Europa). Rimangono quindi i tagli salariali. Questi però approfondirebbero la crisi, sarebbe una ulteriore spinta recessiva per l’economia, e si distruggerebbe reddito nazionale, come in Grecia. Inoltre, esse ostacolano il progresso tecnico, assorbono domanda di lavoro poco specializzata e conducono verso una frontiera tecnologica bassa, con danni enormi alla produttività, come Sylos Labini ci ha insegnato.
Conclusioni e suggerimenti di politica economica
Allora? Qual è la soluzione? Permettetemi di tracciarla, in queste conclusioni, riprendendo i suggerimenti di Politica economica che negli ultimi anni sono venuti da economisti anche main stream rispetto al superamento della crisi.
Mazzucato propone lo stato imprenditore/innovatore (ma come si può fare in questa Europa che obbliga non solo al non superamento del 3% del deficit come stabilito a Maastricht, ma addirittura un deficit strutturale di 0%, ed una riduzione per paesi che hanno un debito superiore al 60% di 5 punti percentuali ogni anno di debito?)
Piketty: propone una global tax o almeno in Europa una common tax e un salario minimo (ma come è possibile in una Europa che pensa a fare tax competition e attrazione di capitali tra stati membri, con flat tax per i ricchi? (Si veda da ultimo il caso italiano).
Krugman propone anziché tagli ai salari, svalutazioni dei tassi di cambio, più efficaci per la ripresa e più indolori, che avrebbero per esempio permesso ai greci nella recente crisi di mantenere quasi lo stesso livello di Pil e non il taglio del 35 percento della ricchezza nazionale. Ma come l’avremmo spiegato questo alla Trojka? E soprattutto non è tecnicamente possibile svalutare in un solo SM.
Infine: Come si pensa di poter fare politiche semplicemente e ragionevolmente keynesiane in presenza di elevati tassi di disoccupazione, se l’UE stima per l’Italia ad esempio un tasso di disoccupazione naturale vicino all’11% nel 2015? Un tasso di disoccupazione naturale (sebbene molto alto al’11%) suggerirebbe per la sua riduzione solo politiche attive e non politiche della domanda! Ma l’evidenza degli ultimi anni ha dimostrato come flessibilità e politiche attive siano inefficaci soprattutto in stagnazione.
Questo mi spinge a concludere che in effetti una Europa pro-Labour in queste condizioni non è possibile.
Un mix di questi suggerimenti sarebbe un minimo necessario oggi in Europa e soprattutto in Italia per sostenere stimolare la crescita. Se questo non è possibile bisogna avere il coraggio di implementare un piano b quanto meno rispetto all’euro. Sarebbe forse una ripartenza anche per l’UE, su altri basi. Quelle fondate sul lavoro appunto.
La mia proposta in 5 punti:
- Invece, se lo sforzo dentro l’euro per il cambiamento dall’interno dovesse essere praticato, questo dovrebbe necessariamente includere il Sindacato Europeo, e le sue preferenze, non incluse a Maastricht, orientate al lavoro.
- L’euro dovrebbe trasformarsi in qualcosa di simile al BANCOR Keynesiano: se c’è il tetto al deficit deve esserci un tetto al surplus, attraverso compensazioni automatiche e il versamento, oltre il 3% del surplus, in un Fondo Comune Europeo.
- Il Fondo Comune Europeo servirebbe a finanziare gli Eurobod per l’occupazione, cioè investimenti nei paesi/regioni con un tasso di disoccupazione superiore al 8-10%. Inoltre, l’introduzione di uno strumento automatico europeo di disoccupazione, sarebbe non solo economicamente utile, ma anche socialmente e politicamente necessario per colmare quella distanza tra le autorità di Bruxelles a e i cittadini europei.
- Va da se che la BCE deve essere riformata, partendo dal suo statuto, includendo tra i suoi obiettivi anche quelli occupazionali oltre quelli di stabilità dei prezzi. La BCE deve sorvegliare e intervenire sui debiti degli SM acquistando quando necessario titoli del debito pubblico nazionale.
- Infine, la creazione di un bilancio centrale europeo di almeno il 5%, e progressivamente verso il 10%.
Fare questo vorrebbe però forse dire superare innanzitutto la crisi prima di tutto ideologica oltre che politica ed economica: una crisi che annovera tra le sue vittime il pluralismo di pensiero e il deficit democratico, e tra i suoi vincitori l’egemonia di un pensiero economico unico dominante.
* Università di Roma Tre
Fonte OCSE
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