Perché il vaccino Covid non è in grado di prevenire completamente il virus.
Intanto, non tutti i vaccini sono efficaci allo stesso modo. Ad esempio, quello contro il morbillo si avvicina al 100%, mentre gli antiinfluenzali difficilmente superano il 30–60% (dipende dagli anni). Quando uscirono per la prima volta, i vaccini anti-Covid avevano un’efficacia insolitamente elevata, oltre il 90%.
Ad ogni modo, tutti i vaccini sono utili. Il fatto che non abbiano un’efficacia massima non implica affatto che abbiano fallito nelle loro applicazioni. Questo deve essere molto chiaro e, purtroppo non sempre lo è. Anche il casco usato dai motociclisti non evita con certezza la commozione cerebrale o peggio, ma non per questo è poco utile. Il casco ha salvato moltissime vite umane. E così hanno fatto i vaccini, inclusi quelli contro Covid-19 che non è una patologia comune, ma una pandemia che ha mietuto nel mondo 15 milioni di vittime stimate (OMS).
C’è nel parallelo citato una differenza non da poco rispetto alla protezione vaccinale: chi stupidamente non indossa il casco non crea alcun danno al prossimo, mentre chi non si vaccina costituisce un pericolo anche per gli altri, oltre che per sé stesso. In questo senso, attenzione: proprio perché i vaccini non proteggono totalmente, è indispensabile che più persone possibile si vaccinino.
La non completa efficacia di un vaccino rispecchia una faccenda di antigeni ed epitopi.
L’antigene è quella caratteristica molecolare d’insieme presente sulla superficie di un aggressore (virus, batterio, protozoo, parassita) che consente al sistema immunitario di riconoscere l’intruso stesso, ovvero un complesso molecolare diverso dal self cui il sistema immunitario stesso appartiene. L’antigene è solo una porzione superficiale del patogeno (quasi mai l’antigene è tutto il patogeno).
L’epitopo è, a sua volta, una porzione dell’antigene. Più specificamente è quel sito dove gli anticorpi (immunoglobuline) si legano all’intruso. Gli anticorpi sono dei segnalatori che, come bandierine impiantate, indicano alle difese naturali dove colpire, ingaggiando combattenti come le cellule killer (distruggono l’intruso) o i macrofagi (fagocitano gli intrusi o i loro detriti).
Alcuni anticorpi fanno di più. Infatti, ricoprendo alcune porzioni superficiali dell’intruso, ne impediscono l’azione dannosa. Per esempio, le immunoglobuline a lunga durata IgG che si legano sulla sommità dello spike del coronavirus, proprio nel dominio RBD che lega il recettore della cellula, impediscono allo spike medesimo di agganciare la cellula. Il virus non può così infettare la cellula. Si capisce perché questi anticorpi sono detti immunizzanti.
L’animazione qui sotto (ottenuta in base a studi stereometrici delle componenti proteiche) mostra la testa dello spike col dominio RBD in basso. Si vede come quest’ultimo si modifica, aprendosi, quando giunge in prossimità del recettore ACE2 sulla membrana delle cellule dell’ospite. Si capisce che se quel sito molecolare è intasato da immunoglobuline il meccanismo di apertura e aggancio non può svilupparsi.
Veniamo ai vaccini.
Andrebbe precisato en passant che i vaccini servono a sviluppare una difesa del tutto analoga a quella naturale di seconda linea dell’organismo. Quella di prima linea è quella innata, cioè geneticamente stabilita. Quest’ultima è velocissima, ma “miope”. Annienta agenti estranei con grande efficacia in base a pattern comuni, ma è fiacca contro patogeni dei quali non riconosce le particolarità fini. Qui subentra una difesa molto meglio calibrata che però richiede giorni o anche un paio di settimane per espletarsi debitamente. Questa risposta adattiva richiede una prima esposizione all’intruso; in un certo senso, l’organismo gli “prende le misure”.
Detto in parole molto semplici, gli attuali vaccini antipandemici stimolano l’approntamento delle difese naturali, offrendo all’organismo una porzione staccata del patogeno. In sostanza, essi usano il solo spike come elemento estraneo su cui l’organismo individua un complesso antigenico e sviluppa immunoglobuline. Quest’ultimo antigene non è necessariamente uguale identico a quello riconosciuto dal sistema immunitario quando si presenta il virus vero e proprio. Tipicamente, di fronte al virus integro gli anticorpi non segnalano solo porzioni superficiali dello spike, ma anche del resto del capside (l’involucro virale). E anche gli epitopi utilizzati sullo spike sono leggermente diversi.
Questo non significa che le difese attrezzate dai vaccini debbano essere meno valide di quelle naturali. Infatti, chi si vaccinava poco dopo l’uscita dei vaccini godeva addirittura di un’mmunità migliore di chi era guarito, come attestavano gli studi. I meccanismi difensivi sono complessi e, probabilmente, la distribuzione naturale di anticorpi su un antigene più vasto (spike + capside) risultava un po’ meno efficace della concentrazione tramite vaccino su un antigene più ristretto (solo spike).
Ad ogni modo, è ben noto che col passare del tempo sono sopravvenute per mutazioni genetiche, o loro ricombinazioni, delle varianti virali. Gli spike di questi nuovi coronavirus non sono uguali a quelli delle prime varianti giunte in occidente. Ma è sugli spike di queste prime versioni che i vaccini sono stati configurati. Si capisce che con la progressiva comparsa di varianti l’immunità di chi man mano guariva risultava più mirata rispetto a quella dei vaccinati.
Questo comporta che gli epitopi legati dagli anticorpi relativi a una risposta a un contagio recente risultano più numerosi di quelli legati dagli anticorpi relativi a una guarigione vecchia o a una vaccinazione. Inoltre, come visto, una guarigione recente sviluppa anticorpi diretti anche contro il capside. A ciò si aggiunge il fatto che, indipendentemente dalle varianti, le difese immunitarie calano nel tempo. Pertanto, sia la protezione dopo vecchie guarigioni che dopo vaccinazione non si mantiene ai livelli iniziali, motivo per cui si effettuano richiami.
In verità, distinguere tra il calo immunitario dovuto al tempo e quello imputabile alle varianti non è sempre facile in una vasta popolazione, dato che anche le varianti si sviluppano nel tempo. Ci sarebbe poi da condurre un discorso sulla memoria immunologica che prescinde dalla presenza sierologica di anticorpi. Ma anche qui l’analisi è ricca di incognite.
Alle considerazioni generali qui fatte occorre aggiungere che le risposte immunitarie sono sempre caratterizzate da profili individuali. Pertanto, anche la protezione offerta da un vaccino che presenta un certo antigene non risulta per ogni persona uguale. Questo vale in duplice senso: come livello e come durata nel tempo.
Oltre agli anticorpi, le difese naturali adattive di seconda linea dipendono da moltissimi altri fattori. Tanto per fare un esempio, possedere anticorpi ad hoc elevati, ma una produzione deficitaria di macrofagi o cellule killer, non pone il soggetto in condizioni di sicurezza elevata. Un individuo di questo tipo godrà di una protezione vaccinale inferiore. Tuttavia, per gli stessi motivi, risulta anche più esposto alle conseguenze serie di Covid-19.
In altri casi ancora può succedere che, per qualche anomalia organica, il vaccino non porti alla produzione di un numero sufficiente di anticorpi mirati. Un caso tipico è quello del mieloma multiplo (MM), una neoplasia che attacca il sistema immunitario (proliferazione incontrollata di un solo tipo di plasmacellule).
Abbiamo tutti visto, ad esempio, che Colin Powell, l’ex segretario alla Difesa USA durante la Guerra del Golfo, è deceduto per Covid-19, malgrado fosse completamente vaccinato. Come mai? Powell accusava appunto un MM. Powell ha fatto comunque bene a vaccinarsi, perché la profilassi gli ha dato comunque qualche opportunità in più. Il decorso patologico gliel’ha poi tolta.
In ogni caso, il fatto che un soggetto malato non risponda allo stimolo vaccinale non significa che il vaccino sia inutile nella popolazione.