Le cause reali del calo dello spread
Alessandro Morselli* – 02 Marzo 2014
La riduzione dello spread sotto i 200 punti base, tra il rendimento dei Btp decennali italiani e quello dei Bund decennali tedeschi può essere un fattore positivo, poiché di solito è il frutto di una riduzione dei tassi di interesse sui titoli di Stato che pertanto tende a migliore la sostenibilità del debito. Nella realtà, tuttavia, può accadere il contrario. Tale riduzione può attribuirsi infatti, in maniera preponderante, a una diminuzione dei differenziali d’inflazione tra Italia e Germania, e non all’operato del Governo. Quindi, siamo di fronte ad un contesto tecnico. In particolare, si registra uno scenario contrassegnato da una diminuzione dei rendimenti dei Btp ed un aumento dei Bund tedeschi dovuti al ridursi del differenziale inflazionistico tra i due paesi. Se guardiamo allora all’altra faccia della medaglia, per l’Italia ciò significa un percorso disinflazionistico che potrebbe deragliare, dannosamente, sul terreno della deflazione. La deflazione è uno scenario parecchio negativo per un paese, con un sensibile effetto depressivo che rende più poveri gli agenti economici, le imprese e le famiglie, ed incrementa il costo del debito sia per lo Stato che per i privati. Vengono infatti rinviate le spese per beneficiare della riduzione del costo del bene che si desidera acquistare, e l’effetto moltiplicativo di questa scelta provoca una contrazione dei consumi, deprimendo la crescita. Deflazione significa inoltre diminuzione dei profitti di chi vende, il che spinge le imprese a cercare di diminuire il costo del lavoro, licenziando e riducendo i salari. Infine, i debiti presentano un tasso di interesse fisso, per cui la discesa dei prezzi provoca una loro maggiore onerosità reale. Tale contesto riguarda sia gli agenti economici privati sia lo Stato. La deflazione decrementa il PIL, provocando una crescita del rapporto col debito pubblico. Allora l’abbassamento dell’inflazione diviene pericoloso per un paese come l’Italia con un elevato debito pubblico. Tale processo di deflazione interna in corso è ovviamente legato al fatto che i paesi dell’Eurozona, non essendo in grado di allineare il cambio ai propri fondamentali, sono giocoforza costretti per recuperare competitività ad agire attraverso la leva salariale. Questo scenario sta comportando una deflazione salariale che, conseguentemente, ha ripercussioni sui consumi e sui prezzi dei beni (i dati Ocse prevedono un peggioramento delle dinamiche salariali nel 2014 rispetto al 2013 per Italia e Spagna, -0,4% e -1,2% annuo). Di fatto, è stata seguita alla lettera quella parte di lettura macroeconomica che indica come strada per la riduzione degli spread nominali un aggiustamento della bilancia commerciale dei paesi in deficit, vale a dire minori importazioni e maggiore competitività di costo che significa maggiori esportazioni. Continuando su tale strada, è possibile anche ad arrivare ad un annullamento dello spread, ma a quale prezzo? I sostenitori delle «svalutazioni interne» dicono che i deficit esterni dei paesi della periferia vanno corretti nonostante l’assenza di un meccanismo di svalutazione. In assenza di un veloce incremento della produttività all’interno di questi paesi è necessario ridurre tutti prezzi, e soprattutto i salari dal 10 % al 30 %, al fine di aumentare la competitività nei confronti dei paesi del Nord e soprattutto nei confronti della Germania. In teoria si pensa alla possibilità di ridurre tutti i salari e i prezzi nella stessa proporzione, in modo da non modificare la ripartizione dei redditi fra i gruppi sociali. Così facendo sia i consumatori che i produttori non andrebbero a modificare i loro consumi e non sostituirebbero un prodotto ad un altro. Questo scenario appare inverosimile, a meno che non chiamiamo in causa i modelli macroeconomici neoliberisti o, all’opposto, immaginiamo una economia perfettamente pianificata. Invece, la realtà è contrassegnata da rapporti di forza e dalle strategie dei gruppi sociali. La diminuzione di prezzi e salari provoca dei fenomeni di redistribuzione e di sostituzione. La parte dominante riduce i propri redditi nominali in maniera inferiore rispetto agli altri, accrescendo la loro fetta di reddito in termini reali, provocando il crollo della produzione e la depressione (es. lezione degli anni Trenta). C’è anche da dire che se il processo deflazionistico dovesse incrociare il fenomeno della trappola della liquidità, allora veramente i problemi sarebbero piuttosto seri. Infatti, un tasso di deflazione crescente, a un dato tasso di interesse nominale, provoca un continuo aumento del tasso di interesse reale, che potrebbe significare una diminuzione degli investimenti, provocando una caduta continua della produzione, con l’economia che entra in un circolo vizioso. Dalla recessione alla depressione il passo è breve! Spesso si sottovaluta lo spettro della deflazione. Invece dovrebbe essere preso in seria considerazione, poiché è un problema difficile da risolvere nel breve periodo come dimostra l’esempio della Grande deflazione degli anni ’90 in Giappone. Anche le borse vanno giù, a seguito dei rischi di una possibile deflazione: Piazza affari e le altre piazze europee seguono la strada del ribasso dopo la pubblicazione dei dati macroeconomici europei. A gennaio 2014, l’indice dei prezzi al consumo nell’area euro ha evidenziato una crescita dello 0,7 (base annua), in ribasso rispetto allo 0,9 % e al dato definitivo di dicembre 2013 dello 0,8%. Tale andamento si ripercuote sulle pressioni alla Bce, alla luce dei possibili rischi di deflazione, poiché l’indice dei prezzi si distanzia sempre più rispetto a quello che la Bce definisce come “stabilità dei prezzi”, vale a dire un’inflazione attorno al 2 % (base annua). In questo particolare momento sarebbe necessario realizzare una politica attiva da parte della Bce, in grado di generare aspettative inflazionistiche. Secondo il premio Nobel Krugman, «gli agenti economici prendono delle decisioni che riguardano sia il presente che il futuro». E allora è il momento di persuadere gli agenti economici che la banca centrale creerà inflazione. In altri termini, quando il tasso d’interesse di rifinanziamento principale è già molto basso, la banca centrale deve convincere gli agenti che manterrà i tassi d’interesse nominali a zero per parecchio tempo accettando un’inflazione positiva. Questa terapia fu adottata nel 1933 dagli Stati Uniti e più recentemente nel 2003 dalla BoJ e in entrambi i casi servì a far modificare le aspettative inflazionistiche. In Giappone, dal 2003, il tasso di interesse reale a lungo termine è iniziato a scendere. La cura proposta da Krugman è sicuramente efficace, ma siamo sicuri che il linguaggio del governatore della Bce sia abbastanza convincente in uno scenario così difficile? Se la politica monetaria non è abbastanza efficace i dettami keynesiani raccomandano di stimolare l’economia attraverso la politica fiscale. Il neoliberismo, che ha ispirato il programma economico conservatore di Margaret Thatcher e quello di Ronald Reagan, entrambi favorevoli alla deregolamentazione, alle privatizzazioni e al contenimento dei salari e della spesa pubblica sociale, aveva creduto che ormai l’interventismo statale di Keynes fosse morto e sepolto. Ma di fronte una scarsa domanda, una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva disponibile, il mercato è diventato un ostacolo al benessere di gran parte del mondo. Anche coloro che si ritengono seguaci del liberismo, davanti al dilemma tra aiutare un sistema capitalistico inefficiente o gettarlo nel disordine generale, hanno sollecitato un intervento straordinario dello stato nel sistema economico per salvare dal fallimento banche e imprese. Al di là degli entusiasmi per il calo dello spread, ciò sembra quanto richiesto dalla situazione presente. –
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