L’austerità espansiva e i numeri (sbagliati) di Reinhart e Rogoff
Vittorio Daniele – 20 Giugno 2013
Se c’è un effetto positivo delle grandi crisi economiche, è certamente quello sulle idee e sulle teorie. Era già accaduto nel ’29 con la Grande depressione, e le sue drammatiche conseguenze sulle vite di milioni di persone, quando i presupposti della visione macroeconomica del tempo rivelarono la loro fallacia. Fu, poi, John Maynard Keynes, con la sua Teoria generale, a offrire un paradigma nuovo per interpretare le crisi economiche e strumenti macroeconomici per affrontarle. Qualcosa di analogo è accaduto anche stavolta, con la crisi finanziaria del 2007 e la Grande recessione che ne è seguita. Anche questi eventi hanno costituito una sorta di “banco di prova” per la macroeconomia. E anche stavolta, alcune idee e teorie non hanno retto alla prova dei fatti. È il caso dell’austerità espansiva, una tesi affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso, sulla base di alcune ricerche empiriche, e incorporata nell’approccio economico dominante. In nuce, la tesi afferma che consolidamenti fiscali, diretti a stabilizzare o abbassare il rapporto debito pubblico/Pil e realizzati attraverso tagli alla spesa pubblica, possano stimolare consumi e investimenti privati. Si tratta di un effetto controintuitivo, significativamente definito “non-keynesiano”. Gli effetti espansivi delle politiche di austerità si giocano tutti, o quasi, sul ruolo delle aspettative. Se i tagli di spesa vengono percepiti come segnali di un futuro abbassamento delle imposte, i consumatori si aspetteranno un più elevato reddito permanente (reddito futuro atteso), per cui tenderanno ad aumentare i consumi correnti. Effetti analoghi, secondo alcuni economisti, si avrebbero anche in seguito a consolidamenti fiscali attuati attraverso aumenti delle imposte[1]. La storia è nota. Nel 2009, per cause diverse, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia entrano in recessione. A causa degli elevati debiti pubblici e dei vincoli europei, i governi non possono usare la politica fiscale per stimolare l’economia; la politica monetaria, centralizzata a livello europeo, non dipende dai singoli paesi. Di fatto, i governi si trovano ad affrontare la recessione senza una politica macroeconomica di stabilizzazione. Quale via per uscire dalla crisi? La tesi dell’austerità espansiva offre un’incoraggiante prospettiva. Se il consolidamento fiscale – un eufemismo per designare i tagli di spesa e gli aumenti delle imposte – può avere effetti espansivi, la via per uscire dalla crisi è già tracciata. Nella logica dell’austerità espansiva, forti riduzioni della spesa pubblica, riequilibrio dei conti e ripresa economica appaiono, infatti, obiettivi conciliabili. Fondo monetario internazionale (FMI), Commissione UE e BCE indicano le condizioni per la concessione degli aiuti ai paesi in difficoltà: Portogallo e Grecia sottoscrivono i Memorandum of understanding. La medesima ricetta si applica, ma con differenti posologie, date le differenti condizioni, a tutti i paesi in recessione. La sequenza è la stessa: un combinato disposto di tagli e inasprimenti fiscali – con alcune misure essenziali, mai perseguite con sufficiente determinazione dai governi, come la riduzione della patologica evasione fiscale. Obiettivi: ridurre o azzerare i disavanzi; ricondurre il rapporto debito-Pil in un sentiero di sostenibilità; aumentare la competitività. I risultati sono, ahimè, noti: contrazione del prodotto reale; aumento del debito pubblico sia in rapporto al Pil, sia in valori assoluti; crescita della disoccupazione; diminuzione del tenore di vita e dei livelli medi di consumo. Si vedano le Tabelle 1 e 2 che riportano i principali indicatori macroeconomici dei quattro paesi. –
La Figura 1 illustra la relazione tra la variazione del saldo strutturale di bilancio nel periodo 2009-2013 e quella del Pil nello stesso periodo, in 20 paesi e in 13 della zona euro. Come è evidente, la correlazione tra le due variabili è altamente significativa. Spiccano, ai due estremi, i casi del Giappone e della Grecia, rispettivamente i paesi con minore e maggiore variazione nei saldi strutturali. Si osservino anche le posizioni di Spagna e Portogallo, in cui ampie restrizioni fiscali si sono accompagnate con significative cadute del prodotto. Dietro i dati, naturalmente, la vita di decine di milioni di persone. Per via di esemplificazione: la rabbia dei giovani indignados; il pensionato greco che, a causa dei tagli al sistema sanitario nazionale, non può più curarsi; l’impiegato portoghese licenziato e in fila alla mensa dei poveri; il disoccupato italiano che, in preda alla disperazione, minaccia di togliersi la vita[2]. Delle aspettative crescenti e progressive sull’aumento del reddito permanente atteso neanche l’ombra. Come prevedibile, nessun effetto espansivo sui consumi o sugli investimenti. I fatti dimostrano la fallacia della tesi. Lo stesso FMI ne prende atto, e in uno studio del 2013 rileva come i moltiplicatori fiscali durante la recessione siano stati maggiori di quelli stimati per il periodo pre-crisi: 1,5 invece che 0,5. Semplicemente: una contrazione fiscale di 1 euro ha avuto un impatto recessivo di 1,5 euro, invece che di 0,5, come precedentemente stimato dagli stessi teorici dell’austerità espansiva[3]. In breve, ci si è accorti che l’austerità è recessiva. A onor del vero, già nel 2010, in uno studio del FMI, si poteva leggere: “L’idea che l’austerità fiscale possa stimolare la crescita nel breve periodo trova poca conferma nei dati. I consolidamenti fiscali, tipicamente, hanno effetti recessivi nel breve termine sull’attività economica, portando a minore output e maggiore disoccupazione”[4] Nonostante ciò, il mito dell’austerità come via per uscire dalla crisi ha resistito. Un aspetto connesso, e ancora da verificare per i paesi europei, riguarda l’impatto delle politiche di aggiustamento fiscale sull’ineguaglianza. Gli studi mostrano, infatti, come tali politiche, e in particolare quelle basate su significative riduzioni di spesa, tendano ad accrescere l’ineguaglianza: in un campione di 17 paesi OCSE, un consolidamento fiscale dell’1% del Pil si è associato, in media, con aumento dello 0,6% nell’ineguaglianza nel reddito disponibile (misurata dall’indice di Gini) nell’anno successivo. Tale effetto si registra, in maniera cumulativa, nei 5-6 anni seguenti i consolidamenti[5]. Dopo aver suscitato un ampio dibattito, ed aver fornito sostegno empirico alle tesi pro-austerity di economisti e politici, anche il citatissimo lavoro di due importanti studiosi dell’Università Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, in cui si mostrava che i paesi con elevati debiti pubblici – cioè con debiti oltre il 90% del Pil – avessero avuto storicamente tassi di crescita negativi, ha subito una secca smentita. Lo studio, intitolato Growth in a time of debt[6], pubblicato nel 2010 sulla prestigiosa American Economic Review, non è stato smentito da sofisticate applicazioni econometriche ma, come nella favola di Andersen I vestiti nuovi dell’imperatore, da Thomas Herndon, uno studente di dottorato dell’Università del Massachusetts Amherst che, utilizzando i dati di Reinahrt e Rogoff per un’esercitazione, si è accorto che qualcosa non quadrava nelle stime dei due economisti. Con il supporto di due suoi professori, Michael Ash e Robert Pollin, Herndon ha mostrato come i risultati precedenti fossero erronei, in quanto inficiati da problemi metodologici, omissioni di dati ed errori di calcolo. La conclusione è che i tassi di crescita medi dei paesi ad elevato debito non sono stati del -0,1%, come indicato da Reinhart e Rogoff, bensì del +2,2%[7]. Una differenza notevole! È chiaro: errori nelle procedure di calcolo sono incidenti spiacevoli ma scusabili; non così eventuali manipolazioni dei dati. Il punto, però, è un altro. E cioè che lo studio di Reinhart e Rogoff ha avuto un impatto mediatico enorme, con citazioni sui principali giornali (dal Financial Times, al The Economist al Wall Street Journal) e canali televisivi mondiali. I suoi risultati sono stati, poi, presi a sostegno delle misure di austerità. Growth in a time of debt è, per esempio, l’unico lavoro citato da Paul Ryan, politico conservatore americano, nella sua risoluzione, significativamente intitolata The Path to Prosperity, presentata alla House of Representatives del Congresso degli Stati Uniti, e da Olli Rehn,Vice Presidente della Commissione Europea, per sostenere le politiche di austerità europee. Per ironia della sorte, lo stesso Olli Rehn, appena qualche giorno prima della pubblicazione dello studio che mostrava gli errori nei calcoli di Reinhart e Rogoff, in una lettera indirizzata ai Ministri economici e finanziari della UE, al FMI e alla BCE, scriveva: “È largamente riconosciuto, sulla base di una seria ricerca accademica, che quando i livelli del debito pubblico superano il 90%, tendono ad avere un impatto negativo sull’andamento dell’economia, che si traduce in bassa crescita per molti anni”[8].
[1] In uno studio si può leggere: “Finally, we find that in large contractions the composition of the fiscal impulse matters. But, in contrast with the usual argument, the non-Keynesian effects of a large fiscal contraction are accentuated when it consists primarily in raising taxes.” F. Giavazzi, T. Jappelli, M. Pagano (1999), Searching for Non-Keynesian Effects of Fiscal Policy, CSEF Working Paper, No. 16, Centre for Studies in Economics and Finance, February, p. 17.
[2] Si veda per esempio M. McKee, M. Karanikolos, P. Belcher, D. Stuckler, Austerity: a failed experiment on the people of Europe, Clinical Medicine 2012, vol. 12. N. 4: 346-350.
[3] O. Blanchard, D. Leigh, Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers, International Monetary Fund, WP 13/1, 2013.
[4] Cfr. International Monetary Fund, World Economic Outlook 2010, Recovery, Risk, and Rebalancing. IMF, 2010, p. 113.
[5] IMF, World Economic and Financial Surveys. Fiscal Monitor, October 2012, p. 53 ss.
[6] C. Reinhart, K. Rogoff, Growth in a Time of Debt, American Economic Review: Papers & Proceedings 2010, 100:2, 1–9.
[7] T. Herndon, M. Ash, R. Pollin, Does High Public Debt Consistently Stifle Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff. PERI Working paper n. 322.
[8] Lettera di Olli Rehn – Brussels, 13.02.2013, ARES (2013) 18579
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