LA SVENDITA DELLE SOVRANITA’ NAZIONALI
GENNARO ZEZZA: Neoliberismo e crisi. Intervento al Workshop per la Democrazia organizzato dal Partito Umanista a Milano il 9 Giugno 2012
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IL MODELLO NEOLIBERISTA
Ora, a mio avviso, alle origini della crisi che viviamo oggi, c’è una crisi di un modello specifico di capitalismo che, per semplicità, possiamo chiamare “neoliberismo”, che si è presentato non come – ovviamente – una dottrina, perché arricchisce alcuni a danno degli altri, ma come un insieme di teorie economiche che suggerivano una strada per un benessere diffuso. E in particolare, a partire dagli anni ’80, prima con la Thatcher e poi con Reagan, è iniziato a passare un messaggio che andava nella direzione opposta del messaggio precedente, diciamo, che ha visto nei decenni precedenti crescere quello che chiamavano il welfare state, cioè i sistemi pensionistici e sanitari pubblici diffusi e che ha visto crescere il benessere, perlomeno nella parte occidentale del mondo. C’è stata una reazione a tutto questo, che ha avuto un consenso elettorale, basata sull’idea che si riducono le tasse che sono troppo alte, poi si libereranno più risorse per gli investimenti: gl imprenditori potranno creare nuove imprese, creare occupazione e tutti ne avranno dei benefici. Parallelamente, dopo la crisi degli anni ’30, erano state imposte una serie di regole molto stringenti sul sistema bancario, che evitavano le speculazioni, e si sono convinti, i politici come l’elettorato, del fatto che eliminando tutti questi vincoli, le banche avrebbero funzionato meglio, avrebbero distribuito meglio le risorse dei piccoli risparmiatori alle imprese più promettenti e avremmo avuto più benessere. E infine che nel settore pubblico, di fatto gestito a fini elettorali, a fini privati, c’è la corruzione, e quindi c’è uno spreco di risorse quando è il settore pubblico a gestire l’economia, mentre se privatizziamo la logica del profitto motiva di più l’organizzazione e anche qui avremmo avuto un forte aumento di benessere. E questo è quello che poi è accaduto, cioè queste sono state le politiche messe in piedi dai governi prima inglese e poi americano, e poi, in modo più o meno diverso, anche nei paesi europei.
Le conseguenze oggi le conosciamo, ed erano ipotizzabili anche da prima. E in particolare la redistribuzione del reddito, sì, ha fatto crescere gli investimenti – abbiamo avuto quella cosiddetta new economy che ha fatto esplodere le aziende legate a internet e così via – ma questa crescita degli investimenti è stata effimera. Sicuramente non ha creato un aumento dell’occupazione e del benessere generalizzato, ma ha concentrato l’aumento del benessere in un piccolo gruppo sociale. L’eliminazione dei controlli sulle banche, invece di portare a una migliore distribuzione del rischio, ha consentito alle banche di adottare dei nuovi modelli di comportamento in cui riuscivano a scaricarsi del rischio di un prestito su soggetti terzi, con comportamenti che erano al limite della frode, quando non erano delle vere e proprie frodi. E quindi ha portato a instabilità finanziaria. E infine la privatizzazione della gestione dei beni pubblici è un qualcosa di discutibile: su questo non so se ci sono degli studi definitivi, che mostrano che il successo che si auspicavano i neoliberisti ci sia stato oppure no, ma mi sembra di vedere che i paesi che per primi hanno adottato queste politiche, per primi hanno iniziato a vedere che gli effetti non erano quelli desiderati.
ALLE ORIGINI DELLA CRISI
Questo sistema neoliberista, che ha avuto e che ha tuttora un forte sostegno politico, è a mio avviso alle origini della crisi. E la crisi è partita, già alla fine degli anni ’90, con un aumento progressivo dell’indebitamento delle famiglie americane. Allora perché si indebitavano, le famiglie americane? Per una serie di motivi. Il primo è che, di fatto, il salario medio, il salario di una famiglia media, è rimasto praticamente stabile per un lungo periodo di tempo, mentre il reddito di una piccola parte della popolazione invece aumentava. E quindi aumentavano le disparità di reddito, che sono piuttosto visibili, perché se guardiamo un qualsiasi telefilm americano noi abbiamo un certo modello di vita, che diventa tutto sommato il riferimento al quale ci contrapponiamo. Di conseguenza, la famiglia media cerca di emulare uno stile di vita che gli viene trasmesso, ma ha uno stipendio che in termini reali non aumenta, e quindi non consente questa cosa. Parallelamente sono aumentati una serie di costi, in particolare negli Stati Uniti il costo della sanità e il costo dell’istruzione, che sono costi per beni tutto sommato essenziali, che crescevano, anche questi, più rapidamente, della possibilità data dal reddito. E contemporaneamente la deregolamentazione delle banche ha esteso l’accesso al credito. Quindi c’è chi dice che ci si è indebitati di più perché le banche adesso concedevano con più facilità i prestiti, c’è anche chi dice: no, ma in realtà, siccome le banche avevano poco rischio nel fare prestiti, sono le banche che hanno convinto i risparmiatori a indebitarsi. Quale che sia la verità, probabilmente un misto di entrambe le cose, la conseguenza è un aumento dei debiti privati. In più ci sono stati degli squilibri particolari, squilibri commerciali dove la Cina, per crescere, ha scelto una strategia di bassi costi e di difesa di questi bassi costi tramite il cambio. Su questi effetti possiamo tornare: sono sicuramente presenti ma non sono centrali in quello che voglio raccontare.
La crisi del debito americano si è tradotta proprio in un accumulo dei crediti che le banche americane prima e poi le banche europee avevano nei confronti in particolare delle famiglie che compravano casa e a un certo punto questa bolla è esplosa, quindi le banche hanno scoperto che questi che per loro erano dei crediti, degli attivi, erano inesigibili. Hanno iniziato a fallire, e questo ovviamente comporta un crollo dei redditi, un crollo della ricchezza che si è trasmesso anche all’Europa. Le banche europee avevano acquistato a man bassa tutti questi cosiddetti titoli spazzatura dagli Stati Uniti e anche loro sono andate in sofferenza, e hanno chiesto un intervento pubblico. Quindi qui c’è stata una sospensione dell’ideologia del neoliberismo che dice che lo Stato è cattivo e che non dovrebbe intervenire nell’economia, e invece si è chiesto un intervento di salvataggio ai governi, per i sistemi bancari. E ovviamente se un Governo trasferisce risorse, liquidità alle banche, avrà un deficit, a meno che non decida di aumentare le tasse per raccogliere il denaro dei cittadini. Quindi il deficit pubblico è stato generato di fatto da questa crisi. In aggiunta, quando un paese va in crisi, i redditi iniziano a scendere e automaticamente i cittadini pagano meno tasse, perché hanno guadagnato di meno, e anche questo contribuisce ad aumentare il deficit pubblico. Tutto questo è normale purché non si chieda immediatamente di sanare questo deficit, perché come si sana un deficit? O aumentando ancora le tasse per quei cittadini che già hanno un reddito più basso, o tagliando i servizi e quindi riducendo ulteriormente il benessere dei cittadini.
A questo punto i mercati finanziari si sono resi conto che c’erano delle opportunità di guadagno dalla crisi europea, per i motivi che vedremo tra pochi minuti, e hanno iniziato un attacco contro i cosiddetti debiti sovrani, cioè i debiti dei governi, che ha fatto aumentare il tasso di interesse, e quindi il costo che i governi devono pagare per ottenere liquidità, aumentando ulteriormente il deficit. E siamo arrivati ad oggi, cioè all’imperativo di ridurre questi deficit con politiche di austerità che, per quello che dicevo prima, causano ulteriore recessione, ulteriore diminuzione dei redditi e quindi un ulteriore aumento dei deficit pubblici. Quindi cioè un cane che si morde la coda.
IL SISTEMA MONETARIO
Vediamo di capire anche un po’ più nel dettaglio gli aspetti monetari e della gestione dell’euro che ci interessano un po’ più da vicino perché uno dei punti centrali su cui oggi dobbiamo ragionare è se quest’euro, e gli accordi che hanno portato all’euro, sono accordi che possono sopravvivere a questa crisi o come dovranno evolvere. Molto rapidamente, ho immaginato che qui il pubblico non sia un pubblico di economisti e che quindi uno debba spiegare almeno gli aspetti fondamentali. Fino al ’71 c’era un sistema dei pagamenti basato sull’oro. C’era una convertibilità del dollaro con l’oro e una convertibilità delle altre valute, compresa la lira, con il dollaro, per cui la moneta – le banconote che tutti usiamo – erano basate sulla fiducia che un qualcuno, la Banca Centrale Americana, poteva convertirle nell’oro, con qualcosa che chiunque accetta come pagamento anche per conservare il potere di acquisto nel tempo. Ma dal ’71, per una serie di motivi che potremmo discutere ma che non ci interessano adesso, gli Stati Uniti sospesero questa convertibilità, ed è iniziato un periodo in cui la moneta è una moneta fiduciaria. Nel senso che per legge dobbiamo usarla per effettuare pagamenti, per legge il tabaccaio deve accettarla se compra le sigarette, ma nulla ci garantisce che possa essere convertita in un qualcosa di prezioso, se non appunto una legge imposta da un Governo. Di conseguenza il valore di una moneta rispetto a un’altra è diventato qualcosa anche che dipendeva dalla fiducia che le persone hanno in quella particolare valuta piuttosto che un’altra.
In questa situazione il tasso di cambio, cioè il prezzo che devo pagare per comprare un’altra valuta, viene determinato automaticamente dalla domanda e dall’offerta di questa valuta, che a sua volta dipende dagli scambi di un paese con l’estero, sia per quanto riguarda le merci, sia per quanto riguarda i titoli. E in una situazione del genere, se un paese è in difficoltà e compra troppo, oppure ha una fuga di capitali, automaticamente la sua moneta si svaluta e quindi le sue merci diventano più convenienti per gli stranieri, gli stranieri le compreranno di più, e tutto torna automaticamente in una situazione sostenibile. E quindi la svalutazione, che forse avete sentito nominare come uno dei peggiori mali possibili, è un’ottima cosa in realtà, perché in un sistema in cui i cambi vengono determinati in questo modo, corregge gli squilibri. Ha due effetti negativi, che oggi vengono molto enfatizzati. Il primo è che la svalutazione rende più caro quello che compriamo all’estero, e quindi può aumentare i prezzi interni. Questo è sicuramente vero, ma quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni è che una svalutazione ha in realtà un qualche effetto sui prezzi, ma è un effetto molto contenuto. Forse è più importante il fatto che se io svaluto, e quindi rendo le mie merci più convenienti, i paesi contro cui svaluto si arrabbiano, perché le loro merci diventano più care, quindi ne vendono di meno, e quindi è considerata una politica aggressiva. E per questo motivo non è, diciamo, sempre auspicabile che venga usata illimitatamente.
In Europa questa flessibilità dei cambi non durò molto. Ci furono una serie di accordi, il “serpente monetario” e così via, ma che comunque consentivano queste fluttuazioni e quindi questi riequilibri. L’Italia ha aderito a questi accordi però ha usato regolarmente la svalutazione per risolvere dei suoi problemi che erano quelli di un’inflazione interna troppo alta rispetto ad altri paesi, fino a che non abbiamo deciso di adottare l’euro, di entrare in questi accordi di cambio. E già prima di decidere, fare questa scelta che ci toglieva la possibilità di usare il cambio per affrontare i problemi economici, abbiamo fatto un’altra scelta importante. E cioè: c’è un qualche legame tra la quantità di moneta che mettiamo in circolazione e il cambio di questa moneta con le altre. Potremnmo dire in linea generale che se stampiamo troppa moneta, il tasso di cambio di questa moneta con le altre dovrebbe deprezzarsi. Fino all’81 la quantità di moneta che veniva creata in Italia, la quantità di lire, era decisa dalla Banca Centrale ma tutto sommato in accordo con i governi. Quindi potremmo dire che c’era, tra virgolette, sulla politica monetaria, sulle decisioni della Banca Centrale. Nell’81 si decise che questa cosa non era buona. Qualche settimana fa a Roma sentivo Vincenzo Scotti, un ex sottosegretario o forse anche ministro democristiano, che diceva: si decise questo divorzio tra Banca Centrale e Tesoro per togliere il barattolo della marmellata dalle mani dei politici perché, appunto, se un politico vuole spendere a fini elettorali, o quello che sia, e la Banca Centrale gli stampa le banconote per coprire queste spese, il politico lo può fare e, nelle parole di Scotti, questa era la situazione che si era creata. E già lì si decise quindi che la gestione della politica monetaria doveva essere tolta dal controllo democratico del Governo e affidata a dei tecnici, quelli della Banca d’Italia.
L’INTEGRAZIONE EUROPEA
Tutto sommato, l’ingresso nell’Euro ha seguito la stessa logica. C’erano ottimi motivi per voler integrare l’Europa dal punto di vista finanziario e anche politico. E all’epoca spero ricorderete che il vero motivo per fare la zona dell’Euro era un motivo politico. La cosa più semplice da fare era un’unica valuta, ma quello non era l’obiettivo vero che avevamo: l’obiettivo vero era diventare tutti europei e così via. Però tutti i passi per arrivare all’obiettivo vero non sono stati fatti. L’unico passo che è stato fatto è stato quello di creare questa moneta unica, ma crearla con un sistema di regole molto specifico. In particolare si decise che la Banca Centrale Europea doveva solo tener conto dei prezzi e non anche di altre cose, come ad esempio la disoccupazione. Negli Stati Uniti la Banca Centrale nei suoi obiettivi di statuto ha sia il controllo dei prezzi sia la lotta alla disoccupazione. Quindi quando l’economia entra in crisi, la Banca Centrale americana ha il mandato di occuparsi del problema e risolverlo, mentre la Banca Centrale Europea non ha questo mandato. In più la Banca Centrale Europea sì, ha una serie di meccanismi di controllo da parte dei paesi membri, ma non è una istituzione rappresentativa nominata tramite il voto dei cittadini.
Si sapeva già, all’epoca, che questo sistema avrebbe creato dei problemi, perché i vari paesi europei non erano pronti ad avere una unificazione monetaria e i sistemi che sono stati messi in piedi per ovviare a questi problemi erano troppo deboli (il cosiddetto sistema dei fondi strutturali che dava le liquidità ai paesi, alle regioni più povere). I motivi della crisi erano già chiari nel 1992. Il docente che mi ha formato, Wynne Godley, scrisse “Dobbiamo enfatizzare già dall’inizio che stabilire una singola valuta in Europa porterà alla fine della sovranità delle nazioni che ne fanno parte e al loro potere di avere azione indipendente sui problemi principali, perché il potere di emettere la propria moneta, e quindi di scrivere assegni sulla propria banca centrale, è l’aspetto fondamentale che definisce l’indipendenza nazionale. Se un Paese abbandona o perde questo potere, acquisisce lo stato di una autorità locale o di una colonia. Le autorità locali o le regioni non possono svalutare ma perdono anche il potere di finanziare il loro deficit creando moneta, o tramite altri meccanismi finanziari, e non possono influenzare i tassi di interesse. E siccome le autorità locali non hanno nessuno degli strumenti per una politica macroeconomica, la loro scelta sarà limitata a argomenti di minore importanza, a ‘un po’ più di scuole lì, un po’ meno infrastrutture qui.”. Che è esattamente la situazione in cui ci troviamo oggi. Come vedete era chiaro nelle regole di formazione dell’euro, già agli inizi degli anni ’90.
Quali sono i problemi dell’euro, quindi? I problemi dell’euro sono dati dal fatto che se il tasso dei cambi è fisso, non si può usare per eliminare gli squilibri, come vi ho detto prima. E quindi se una regione sta vendendo più di quanto compra accumula crediti, ma se fa questo c’è una qualche altra regione che sta accumulando dei debiti. Ora, se le regioni sono interne a un paese – pensiamo al mezzogiorno e al centro-nord dell’Italia – e però c’è un sistema fiscale che vale per l’intero paese, automaticamente la regione che cresce di più paga più tasse, la regione che cresce di meno riceve più sussidi, e quindi in qualche modo questo meccanismo viene non dico eliminato, ma perlomeno temperato. Se c’è anche una politica industriale, come c’è stata in Italia fino agli anni ’70, che fa investimenti nella regione svantaggiata e le consente di diventare più autonoma e sostenibile, lo squilibrio può essere annullato definitivamente. Ma se manca questo meccanismo, e in Europa questo meccanismo manca, l’accumulazione di crediti da parte di una regione, in questo caso della Germania e degli altri Paesi vicini alla Germania, implica inevitabilmente il debito degli altri, e quindi una crisi. E la Germania ha proprio adottato questa strategia di basarsi – la cosiddetta strategia neomercantilista – sulle proprie vendite all’estero, proprio con i Paesi più deboli dell’area europea, che non avendo più lo strumento della svalutazione, non avevano modo di contrastare questa cosa, se non comprimendo i salari. Cosa che ovviamente non era nelle nostre intenzioni, perché noi siamo entrati nell’euro per aumentare il nostro benessere, non per ridurre i salari dei lavoratori.
E poi ci sono stati quei meccanismi di cui ho detto prima, cioè una crisi finanziaria, un aumento dei deficit e così via, e se andiamo a guardare i dati ci accorgiamo che i debiti pubblici e i deficit non erano alti né prima di entrare nell’euro né prima della crisi del 2007. Quindi i deficit pubblici non sono per nulla la causa della nostra crisi. La conseguenza è che non sono quelli a cui dobbiamo guardare per risolvere la crisi. In più, il debito pubblico, come qualunque debito, è sempre un credito di qualcun altro. Quindi quando ci vengono a dire “ogni cittadino che nasce ha tot-mila euro di debito”, trascurano di dirci che qualcun altro avrà tot-mila euro di crediti. Se è il papà di questo bambino ad avere i crediti, tutto sommato è una storia interna alla famiglia. Cioè è il papà che ha deciso di costruire scuole e ospedali per suo figlio, e suo figlio, quando crescerà, guadagnerà di più, avrà un reddito più alto e ripagherà le spese che sono state fatte nel passato. Quindi il problema del debito pubblico è un problema di distribuzione, di come noi vogliamo decidere quanto dei servizi che forniamo ai cittadini facciamo pagare oggi, e quanto facciamo pagare nel futuro. E la logica vorrebbe che quando il benessere aumenta, il cittadino ha più possibilità di pagare i servizi pubblici, mentre quando c’è una crisi ha meno possibilità, e quello non è il momento in cui chiedere un rimborso di questi costi. In più il problema del debito pubblico, cioè di come pagare questi servizi, può essere anche risolto tramite la stampa di moneta, cioè l’intervento della Banca Centrale. Ma la Banca Centrale Europea non può farlo per statuto, per la logica neoliberista. Cioè: “Il governo è cattivo. Se gli diamo la possibilità di creare moneta a dismisura, lo farà per motivi che non hanno a che fare col benessere, quindi dobbiamo vietarglielo”.
C’è una componente che dice: “Ma se stampiamo troppa moneta poi ci sarà inflazione”. Questo è vero in parte, ma solo quando nel sistema economico si sta già creando tutto quello che si può creare. Come dicono gli economisti, quando tutte le risorse produttive sono utilizzate. In quella situazione, se stampiamo più moneta, la moneta rincorre dei beni che non possono aumentare, e quindi i prezzi aumentano. Ma quando c’è disoccupazione, quando le imprese stanno producendo molto meno di quello che potrebbero, se stampiamo più moneta e quindi creiamo anche artificialmente più domanda, questo mette in moto maggiore produzione, maggiore creazione di reddito, e non c’è alcun motivo perché questa cosa debba tramutarsi in una crescita dei prezzi. Quindi il fatto che più moneta è uguale a più inflazione è vero solo in certe situazioni che sicuramente non si hanno quando un paese è in crisi.
AUSTERITA’
Dobbiamo invece chiederci, come già suggerivo, che effetti abbiamo quando introduciamo l’austerità. Sono pazzi questi tedeschi che dicono che dobbiamo fare l’austerità per risolvere il problema? Non necessariamente, perché il modello teorico neoliberista dice appunto che il Governo, quando spende, danneggia l’economia, perché sottrae risorse agli imprenditori, quindi se il Governo spende mille euro, sono mille euro di investimenti privati che non vengono fatti, e in più c’è un’altra serie di disincentivi per cui – dicono loro – se il Governo spende fa un danno. Quindi se spende di meno fa il bene del Paese. Come diciamo noi, c’è un moltiplicatore negativo della spesa pubblica. E quindi dovremmo vedere che, con l’austerità, le imprese iniziano ad investire molto di più. Quello che stiamo vedendo oggi, in Grecia, in Italia, in Spagna, in Portogallo è proprio il contrario: cioè quello che Keynes e le teorie keynesiane hanno sempre sostenuto: la spesa pubblica ha un effetto positivo, e anche forte, sull’economia di un Paese. Quindi quando introduciamo l’austerità si ha un crollo dei redditi e anche un crollo delle aspettative di profitto, quindi anche un crollo degli investimenti e così via. Quindi dire austerità e crescita è dire due cose che sono l’una l’opposto dell’altra: non si può avere austerità e crescita. Ed è anche interessante capire l’austerità come viene fatta, perché se l’austerità viene fatta tagliando i salari, tagliando le pensioni, gli effetti sulla distribuzione del reddito sono di un particolare tipo, mentre se l’austerità viene fatta salvaguardando i tassi di interesse che i governi pagano sui loro debiti, cioè il famoso spread, se lo spread è deciso dai mercati stiamo dicendo che noi vogliamo salvaguardare gli interessi dei creditori, cioè delle banche che hanno il credito, che è un debito del Governo.
MODERN MONEY THEORY
In tutto questo, una delle teorie di cui si sta discutendo un po’ in Italia è la cosiddetta Mondern Money Theor, su cui andrò molto rapidamente perché a mio avviso è una proposta che è stata completamente stravolta e che è partita da studiosi, miei colleghi, del Levy Institute negli Stati Uniti. Fondamentalmente la Modern Money Theory che cosa dice? Ci dice quello che vi ho appena spiegato finora, e cioè che se un sistema economico è in crisi, è compito del Governo intervenire con una spesa aggiuntiva e, se non ci sono risorse liquide per farlo, è un bene che la Banca Centrale stampi nuova moneta per finanziare queste spese. Quindi l’idea è che il Governo dovrebbe avere a cuore la piena occupazione. Se le imprese non creano posti di lavoro e i disoccupati aumentano, compito del Governo dovrebbe essere creare i posti di lavoro mancanti, con una serie di meccanismi che garantiscono che questi posti di lavoro non danneggiano le prospettive delle imprese private di creare altri posti di lavoro, quindi che il Governo non entri in concorrenza con le imprese nella produzione. Quindi il Governo non dovrebbe creare una fabbrica di pomodori pelato o una fattoria, ma dovrebbe ma dovrebbe creare posti di lavoro nei cosiddetti beni pubblici, quindi nella Sanità, nella Tutela del Territorio e in una serie di altre cose di questo genere. Quindi la Modern Money Theory sostanzialmente dice: compito del Governo in una crisi è creare occupazione, compito della Banca Centrale è finanziare questa spesa pubblica aggiuntiva, se non ci sono le risorse per farlo.
Il problema è che la Modern Money Theory ha una serie di implicazioni che sono molto provocatorie e piacciono molto a una serie di persone. Per esempio, l’implicazione che se noi possiamo finanziare tutto stampando moneta, ma allora perché abbiamo le tasse? Intanto la Modern Money Theory dice anche: sì, ma le tasse ci sono perché se la moneta non serve a pagare le tasse, perché mai i cittadini dovrebbero avere dei pezzi di carta con su scritto 10 euro o 1000 lire, che sono appunto dei pezzi di carta? Quindi il pezzo di carta ha una legittimità solo legale, la legittimità legale viene dal fatto che il Governo vuole essere pagato con quei pezzi di carta, se crolla questo crolla tutto. Inoltre il cittadino che paga le tasse vuole un qualche riferimento sul servizio che lui ottiene con le tasse che lui paga. Quindi se noi abolissimo le tasse e pagassimo tutti i servizi stampando moneta – e questo crea una serie di meccanismi di inflazione un po’ complessi – si potrebbe fare, ma sicuramente avremmo un problema fenomenale perché cadrebbe qualunque legame tra il fatto che io pago il biglietto dell’autobus per usare l’autobus, cioè il legame tra contributo che si deve dare e servizio che si ottiene. E in secondo luogo, la cosa più importante, cadrebbe la possibilità per il Governo di redistribuire reddito. La nostra Costituzione dice che dovremmo usare un sistema non proporzionale ma progressivo, cioè che chi ha un reddito più alto dovrebbe contribuire più che proporzionalmente al finanziamento dei servizi pubblici e così via. Quindi su questa Modern Money theory oggi c’è una discussione un po’ confusa perché – che ne so – qualcuno dice “Ah, l’evasione non è un problema perché in realtà il vero problema è che non possiamo stampare le banconote”. No, in realtà l’evasione è un problema perché, di nuovo, fallisce l’obiettivo di redistribuzione, di riallocazione del costo dei servizi in modo equo tra i cittadini. Altri possono dire “Stampiamo moneta perché le pensioni sono basse, e invece se stampiamo moneta possiamo darne di più ai pensionati”. Questo non ha nulla a che fare con la Modern Money Theory, ed è un po’ complicato capire se questo meccanismo funzionerebbe, sarebbe efficace oppure no. Quello che invece sarebbe utile e fondamentale non è stampare banconote e regalarle in giro, ma creare posti di lavoro.
LA CRISI E’ SOLO UN PROBLEMA POLITICO
Sicuramente è vero che noi non possiamo fare questo oggi con l’attuale assetto istituzionale, e sicuramente è vero che dobbiamo ripristinare la sovranità monetaria, cioè un controllo democratico sulla politica monetaria. Il problema è che si sta cercando di capire se si può fare a livello europeo, quindi mantenendo l’euro, o se dobbiamo decidere che l’euro è fallito e dobbiamo tornare alle valute nazionali. Se pensiamo che questa cosa si possa fare con l’euro, dobbiamo correggere le istituzioni europee nel modo che ho detto prima, che già era chiaro all’inizio di tutta la storia. In particolare dobbiamo introdurre una serie di sistemi che automaticamente redistribuiscano il reddito dalle regioni più ricche d’Europa alle regioni meno ricche, e che prevedano degli interventi di politica industriale cospicui, e non quelli che ci sono già oggi, per consentire alle regioni in difficoltà di crescere e diventare di nuovo autonome. Tutte queste cose si potrebbero fare molto rapidamente, e il fatto che i governi attuali non le abbiano fatte né dicano di volerle fare, inizia a far pensare che forse non c’è la volontà politica di farle, e quindi tutta la crisi non è un problema economico, ma è un problema politico. E se i cittadini… per esempio so che i cittadini greci, da un sondaggio, vorrebbero tutti restare nell’euro, anche se l’assetto attuale dell’euro li sta massacrando: quindi c’è un problema politico e c’è un problema di democrazia, cioè si è perso il collegamento tra la volontà dei cittadini e quello che viene fatto. Se è impossibile rimanere nell’euro si può sempre uscire e tornare a una propria valuta. Ora, questa cosa è più o meno possibile, più o meno costosa, in base a tutta una serie di aspetti che riguardano i diversi paesi. Per esempio è sicuramente una follia per un Paese uscire dall’euro se tutti i suoi debiti sono denominati in euro e il Paese non ha la capacità, la sovranità sui contratti per portarli in una nuova valuta. Quindi se noi uscissimo dall’euro, e voi avete un mutuo in euro fatto con una banca tedesca, che dovete pagare in euro, e a voi iniziano a pagarvi in lire, e la lira si svaluta del 20% sull’euro, il vostro mutuo con la banca tedesca diventa più caro del 20%. E quindi questo è molto costoso. Ma se abbiamo la sovranità per dire che il vostro mutuo in euro viene convertito in lire a un tasso di cambio predefinito, e quindi da oggi in poi pagherete in lire, che la lire si svaluti rispetto all’euro a voi non interessa più, perché voi comunque pagherete in lire i vostri obblighi contrattuali. Quindi, per esempio la Grecia ha una grossa parte del debito denominata sotto la giurisdizione greca, che può convertire in una nuova valuta, e quindi a mio avviso da questo punto di vista ha la strada spianata per uscire dall’euro, se volesse, mentre per paesi come l’Irlanda, che hanno il debito tutto denominato in contratti di diritto anglosassone, che non potrebbero riconvertire a meno di contenziosi notevoli a livello internazionale, e quindi uscire dall’euro per l’Irlanda è un problema.
Sicuramente, risolti questi problemi, avremmo una svalutazione, e la svalutazione non è una cosa pazzesca, come dicono alcuni: porterebbe a un po’ di inflazione, ma un’inflazione limitata e sicuramente, però, non ci si fermerebbe qui. Sarebbe necessario, se non indispensabile, reintrodurre delle limitazioni ai movimenti di capitale, quindi chiudere con la logica neoliberista, che è quella che ha dominato gli ultimi decenni.
LA REDISTRIBUZIONE DELLA RICCHEZZA
Due parole finali sul debito pubblico italiano, perché qui c’è un aspetto – che già un pochino ho collegato – e che è legato all’evasione. Secondo me, uno dei problemi dell’evasione in Italia… Almeno, l’evasione in Italia è nata per cose che sappiamo tutti: c’è un piccolo nucleo di società o di individui che possono evadere molto del loro reddito e lo possono fare da tanti anni. Quindi questo ha creato un calo nel gettito che il Governo ha per pagare i propri servizi, e ha costretto i governi ad aumentare le aliquote. Ma quando io aumento le aliquote dò anche un incentivo a evadere appena possibile, e quindi si è arrivati in una situazione di stallo in cui pochi che non possono evadere pagano cifre insostenibili, e tutti quelli che possono in qualche modo evadere evadono. E questo distorce completamente la situazione e contribuisce alla logica del neoliberismo, cioè il Governo è un qualcosa che ci è nemico, cerca di toglierci delle risorse, se invece il Governo sparisse io riuscirei a vivere molto bene senza dover pagare questi odiosi balzelli. Però non si pensa al fatto che nessuno poi asfalterebbe la strada o pagherebbe l’insegnante della scuola di mio figlio. Di fatto, quelle che mi sembrano soluzioni ragionevoli o almeno condivisibili, stanno iniziando ad emergere. Ci trovo molti punti di contatto con cose che ho sentito dal movimento umanista, anche se sono di solito i partiti considerati di sinistra. Per esempio, Syriza, il partito molto quotato in Grecia come potenziale vincitore del prossimo turno elettorale, ha un programma che è confuso su alcune cose che adesso dirò, ma fondamentalmente sostiene: “Qua abbiamo un problema di distribuzione: i più ricchi per troppi anni non hanno pagato, e adesso dovrebbero pagare il conto. E da loro dobbiamo prendere una serie di risorse per rifinanziare tutte quelle categorie dei danni dai tagli dello stato sociale, e così via”. Anche loro hanno chiaro che c’è un problema di finanziamento, e qua c’è la confusione perché loro dicono: “Dobbiamo esigere dall’Unione Europea un cambiamento nel ruolo della Banca Centrale perché stampi gli euro”. Però, come dire, in che modo esigere? Perché se loro avessero voluto far questo lo avrebbero potuto fare già quattro, cinque anni fa. Bastava far incontrare il premier spagnolo, quello greco, quello italiano e quello portoghese e dire: “Cari amici, facciamo fronte comune contro la Germania e la Francia. Cambiamo le regole del funzionamento della Banca Centrale. Se ci dicono di no, e allora noi facciamo una bella bancarotta. Tutti i nostri debiti sono debiti delle banche centrali francesi: le facciamo fallire e poi sono fatti loro”. Se non si è fatto questo, che probabilmente era una strada abbastanza indolore per risolvere la crisi prima che cominciasse, è difficile pensare che oggi, se sbatti i pugni sul tavolo, poi la Merkel cambia lo statuto della BCE. Quindi c’è un po’ di confusione su questo, e c’è un po’ di confusione in Syriza anche sul fatto che non è che dicano in modo chiaro che dagli aumenti delle tasse che loro prevedono, riescono a finanziare tutto il settore pubblico. Quindi, se io non posso spiegare credibilmente dove prendo il denaro per pagare gli aumenti delle pensioni, l’aumento dei sussidi e quant’altro, faccio populismo e poco altro. Però, ad esempio, il programma di Mélenchon in Francia aveva più o meno gli stessi temi, e quelli avevano invece fatto un bel piano finanziario in cui mostravano che si riusciva a sostenere tutto l’aumento del welfare state che volevano fare con gli aumenti delle imposte che prevedevano.
Abbiamo anche una serie di altri problemi che sono derivati dal neoliberismo e di cui credo che qui vi occuperete oggi. Uno è che tutte le vie di uscita della crisi prevedono un qualche ritorno a un ruolo centrale del Governo della gestione della cosa pubblica per il benesserre collettivo. Però sono anni che ci dicono che i politici rubano. E quindi finché non risolviamo questa cosa, cioè finché non c’è un qualche meccanismo – presumo che voi siate per la democrazia diretta – che sostituisce al politico che ruba un qualcuno che invece agisce per l’interesse della collettività, da qui non si esce, perché se non si esce per questa strada, allora l’alternativa è un neoliberismo ancora più esteso: ognuno per sè. E come si va a finire? Abbiamo problemi di informazione, me lo direte, ancora di più. E sull’ultimo punto, appunto: “se usciamo dall’euro poi abbiamo risolto i nostri problemi?”, c’è qualcosa su cui riflettere, perché i problemi di cui vi ho parlato – Germania, Grecia e italia – sono gli stessi che abbiamo/avevamo – centro, nord e mezzogiorno – e che, come sapete, anche una parte degli elettori della Lega non voleva più risolvere in questo modo. Grazie.
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