La Sibèria. Conosciamola un po’.
La Siberia occidentale (oggi chiamato Distretto Federale Siberiano) è un vastissimo bassopiano che continua la pianura nord-europea a est degli Urali, e che arriva a sud fino ai monti Altai, ai confini di Cina e Mongolia, mentre a est il confine è quello del fiume Jenissej, oltre il quale vi è l’Altopiano della Siberia centrale (oggi inclusa nel Distretto dell’Estremo Oriente Russo).
Il confine sud è anche determinato da un pezzo della ferrovia Transiberiana, che praticamente fa da spartiacque tra Siberia occidentale e Kazakistan. Un altro confine estremo di quest’area, a sud-est, può essere quello del famoso lago Baikal, grande come il Belgio.
Il fiume Jenissej sfocia nella penisola di Gyda, a nord-est della quale vi è il bassopiano siberiano settentrionale. Non è questo il fiume più importante della zona occidentale della Siberia, ma l’Ob (di 4016 km) e il suo affluente Irtish, il bacino dei quali arriva a circa 3,5 milioni di kmq.
In quest’area, che si estende per 2500 km da nord a sud, con una larghezza massima di 2000 km e con soli 100 metri di dislivello (il che rende i fiumi lentissimi), sono ancora vastissime le zone paludose (vi crescono ben 750 diverse piante medicinali). L’ostruzione dei corsi d’acqua tributari del Mare di Kara è in grado di trasformare questa pianura, a fine primavera, in un gigantesco acquitrino di 4 milioni di kmq.
La scoperta del petrolio e del gas naturale (1960) è avvenuta prima nella tundra paludosa del nord, poi lungo il corso dell’Ob-Irtish, infine nella zona del Tiumen.
La Siberia orientale, la più vasta regione della Russia, è invece occupata per 3/4 da altipiani e catene montuose scarsamente popolate e con risorse in gran parte ignote (in Jakutia, http://p.es
., si cerca di non sfruttare a fondo i giacimenti auriferi e diamantiferi per non farne crollare il prezzo a livello mondiale).
Questa regione è anche delimitata da due grandi fiumi tributari del Mar Glaciale Artico: lo Jenissei (4092 km) e il Lena (4400 km), navigabili d’estate, i cui bacini idrografici sono, rispettivamente, di 2,6 e 2,5 milioni di kmq. La foresta occupa la totalità della regione, a eccezione del bacino medio del Lena. I due suddetti fiumi, più l’Angara (1779 km), sono sufficienti a coprire il 40% delle riserve di energia idroelettrica del paese.
Poi vi è l’Estremo Oriente Russo (che oggi a livello amministrativo include la Siberia centrale e orientale), con alti massicci, vulcani in attività, geyser, dove la popolazione è concentrata lungo le coste (tra le più pescose del mondo) e nel bacino dell’Amur (unico fiume siberiano a non gettarsi in un mare glaciale, la cui riva destra appartiene alla Cina). Praticamente la parte che si estende lungo la costa del Pacifico, dallo stretto di Bering alla frontiera cinese, ha una lunghezza di 4500 km.
Vladivostok, dove finisce la Transiberiana, è il maggior porto russo nel Pacifico: è base navale e quindi vietata ai turisti.
Dal nord al sud della Siberia si succedono tre grandi fasce di vegetazione: la tundra, la taiga e la steppa.
La prima è caratterizzata da muschi, licheni e salici nani, su un suolo sempre gelato, che l’inverno rende desolato e l’estate trasforma in un enorme pantano. L’animale prevalente è la renna, il bovino siberiano da tiro e da allevamento, che fornisce latte, carne, grasso, pelliccia o pelle: persino le corna e le ossa vengono lavorate.
La taiga, più a sud, è invece un’immensa foresta di betulle e conifere, abitata da lupi, orsi e cervi, ma anche da molti animali da pelliccia e anche da bestie feroci. Per migliaia di anni quest’area è stata il sostegno delle popolazioni più primitive.
Infine la steppa, dagli Urali alla Manciuria, in parte agricola, nelle terre nere, e in parte silvestre se non addirittura arida, quasi desertica, frequentata da cavalli e dromedari. Qui col tempo si sono concentrati i 9/10 della popolazione siberiana.
La Siberia è il regno del freddo: vi sono record che sfiorano i -90° C. Nel Grande Nord il termometro scende spesso sotto i 60° C e l’inverno dura nove mesi e mezzo. Già intorno ai -40° C non si è più in grado di far nulla all’aperto: è una soglia critica. Le stesse proprietà fisiche dei materiali iniziano a cambiare.
Più a sud la temperatura media di gennaio è compresa tra -20 e -30° C e il gelo dura sei mesi. A Norilsk, la città più settentrionale della Siberia (e anche una delle dieci più inquinate del mondo a causa del diossido di zolfo connesso al deposito di nichel-rame-palladio), fa così freddo che ogni casa ha tre porte d’ingresso successive.
Là dove l’estate arriva a 40° C il territorio è tutto un pantano impraticabile, in quanto l’acqua non può essere assorbita dal sottosuolo impermeabile. Si formano enormi paludi, ricoperte da nuvole di insetti che obbligano a chiudere i cantieri e a proteggersi con abiti speciali.
Le sorti dell’agricoltura sono molto precarie, poiché il freddo può iniziare anche in agosto e la neve può arrivare prima che siano cadute le foglie. E’ difficile produrre qualcosa senza serre, a meno che non siano cereali.
L’intera Siberia è una regione di 9.653.000 kmq: il 67% di tutto il territorio russo.
Dalle origini al XV secolo.
Il nome “Siberia” probabilmente proviene dalla tribù dei Saviri, che combatteva nell’esercito unno di Attila. Ma un’altra ipotesi attribuisce il nome alla capitale tartara Sibir, del khanato fondato nel 1242.
Gli archeologi fanno risalire i primi abitanti (nell’insediamento Ulalinskij) a oltre 700 mila anni fa, e se gli scavi proseguiranno si pensa di arrivare a oltre un milione. E’ dunque una regione antichissima.
A circa 40.000 anni fa risale la produzione di oggetti in avorio raffiguranti animali o divinità. Nel III millennio a.C. si sviluppa una civiltà nomade e pastorale che raggiunge l’età del bronzo a sud, ma si ferma a quella della pietra a nord. A sud fiorisce la cultura detta Minusinsk, che produceva ceramiche a motivi geometrici.
Nel I millennio a.C. si ha l’apogeo della cultura scito-siberiana e la prima penetrazione mongola. Il matriarcato scompare.
Probabilmente tra i popoli più antichi della Siberia, di cui sono rimaste significative tracce, vanno annoverati gli jenissiani, che parlavano una lingua diversa dalle lingue uralo-altaiche (il gruppo linguistico che include le lingue altaiche come turco, mongolo, kazaco, uzbeco e manciù e i suoi derivati, come coreano e giapponese, nonché le lingue uraliche come ungherese, finlandese, estone).
In seguito arrivarono gli ugro-samoiedi, provenienti dagli altopiani e costretti, probabilmente durante la grande migrazione degli Unni nel III secolo a.C., ad attraversare i monti Altai e ad entrare nella Siberia. Da questo secolo al I a.C. gli Unni respingono i Mongoli verso nord, che si fondono con gli indigeni locali.
Gli ugro-samoiedi non conoscevano il bronzo, l’argento e l’oro, ma non il ferro, e in generale la loro civilizzazione fu superiore a quelle successive.
Nella storia della Siberia sono note le prime incursioni nomadiche degli Sciti (Pazyryk) e degli Xiongnu. Entrambe avvennero prima dell’era cristiana. Le steppe della Siberia meridionale videro una successione di imperi nomadici, comprendenti l’Impero Turco e l’Impero Mongolo. Praticamente nel periodo che va dal I al X sec. d.C. si assiste a una penetrazione dei Turkmeni e dei Kirghisi, che riscuotono un’imposta in pelli di zibellino, loro moneta di scambio nel commercio con la Cina.
Nel Medioevo il buddhismo lamaista si estese nel territorio al sud del lago Baikal.
Il primo Stato indipendente dell’estremo oriente fu il Bohai (Tungusu-Manciù) fondato nell’VIII secolo e che nel X venne sopraffatto dalle tribù Han, che avevano formato un nuovo stato detto “l’Impero d’oro”. Otto secoli dopo popoli turchi come gli hakasi e gli uiguri giunsero nel centro della Siberia meridionale.
Prima di essere quasi completamente distrutti o assoggettati dalle orde mongoliche di Gengis Khan (1155-1127), i popoli siberiani avevano costruito importanti Stati nei secoli VII-XIII: Bohai, Impero d’Oro dei Giurgen nel Primorie, lo Stato dei Kirghisi del Jenissei, a sud della Siberia occidentale.
I primi russi che presero contatti con loro furono quelli che, varcati gli Urali, nella seconda metà del XIV sec., cercavano di ampliare l’area di caccia allo zibellino, per la preziosa pelliccia, al punto che creeranno una via commerciale parallela alla grande via asiatica della seta: quella appunto dello zibellino, che attraversava la Buriazia e l’estremo oriente e giungeva fino a Bisanzio.
La distruzione del regno mongolo da parte dei russi avviene nella seconda metà del XV sec.: restava soltanto il khanato siberiano.
XVI-XVIII: i secoli della colonizzazione russa.
Quando nel XVI sec. iniziò il processo di unificazione tra Russia e Siberia, quest’ultima era già un khanato indipendente dal XV sec., in cui i tartari la facevamo da padroni su varie popolazioni locali (Chanti, Mansi ecc.). I suoi confini erano inclusi tra i fiumi Tobol, Tura, Irtysh e Ob.
Inizialmente l’attività principale di tutte le popolazioni della Siberia occidentale era l’allevamento nomade del bestiame (renne a nord, cavalli e cammelli a sud), ma praticavano anche la caccia di animali da pelliccia, la pesca, l’apicoltura… Fu verso il XVI sec. che vennero affermandosi i rapporti feudali di produzione, con una progressiva appropriazione di terre e laboratori artigianali da parte dei ceti rurali, che assunsero un ruolo nobiliare.
Nel 1574 lo zar Ivan IV (1530-84) ) dette ai ricchi commercianti della famiglia Stroganov la licenza di costruire cittadine militari oltre gli Urali, autorizzandoli ad arruolare soldati mercenari cosacchi, se avessero trovato difficoltà nel loro business. In realtà ci si preparava a un attacco contro il khanato, il quale, per sottrarsi all’influenza degli emiri di Bukara, aveva cercato la protezione dello zar.
Siccome Ivan IV pretendeva come tributo le preziose pellicce, il khan Kucium aveva rotto i rapporti. Ma i russi, poiché era dalla prima metà del XIII sec. che avevano dovuto sopportare la dominazione tataro-mongola, al punto che ancora nel 1571 Mosca era stata quasi completamente incendiata, decisero di sbarazzarsi definitivamente di un vicino così scomodo.
Nel 1582 una compagnia di milleseicentotrentasei cosacchi del Volga, assoldata dagli Stroganov e capeggiata dall’ataman Jermak, sbaragliò molto facilmente i tartari, che nulla poterono con archi e frecce contro le armi da fuoco.
Tuttavia la campagna di Jermak non fu così semplice: caduto successivamente in un’imboscata, vi perse la vita, e si dovette aspettare il nuovo zar, Boris Godunov (1598-1605, già reggente de facto nel 1588), prima di inglobare per sempre il khanato nello Stato russo, i cui tartari furono dispersi nelle steppe, sostituiti dall’arrivo in massa dei cosacchi. Le prime popolazioni indigene cominciano ad essere violentemente represse dai russi proprio in questo periodo.
Dopo aver edificato Tobolsk, la nuova capitale della Siberia, nel 1594 fu la volta della città di Tara, da dove ebbero inizio le ultime campagne militari contro i tartari. Le pellicce siberiane divennero così la merce più redditizia dell’export russo, anche se già nella prima metà del Seicento non esistevano quasi più zibellini nella Siberia occidentale, e i cacciatori si videro costretti a dirigersi sempre più a est, minacciando la sopravvivenza di volpi, ermellini, castori, ecc.
La colonizzazione era avvenuta secondo i metodi esistenti nelle regioni europee della Russia feudale, ma senza il servaggio. Piccole città con funzioni amministrative e di presidio militare lungo le grandi e rare vie di comunicazione, prevalentemente fluviali. Villaggi rurali del tutto autosufficienti, molto distanti tra loro.
Nell’arco di mezzo secolo i cosacchi avevano praticamente raggiunto la costa del Pacifico, spostando i confini della Russia di oltre 7000 km. Giunti nel 1654 sul fiume Amur si scontrarono con l’esercito cinese e dovettero fermare la loro conquista, anche se gli scontri durarono sino alla firma del trattato commerciale del 1689. A nord tuttavia i pionieri della Siberia raggiunsero il continente americano, attraversando lo stretto che prese il nome dell’ufficiale della marina russa, Vitus Bering (1681-1741), di origine danese.
Nel 1709 la popolazione siberiana contava 229.000 abitanti. Mentre alla fine del 1500 le etnie non russe toccavano appena il 19%, all’inizio del 1700 superavano già il 30% e alla fine del Settecento arrivavano al 47% della popolazione totale. I colonizzatori venivano a sovvertire profondamente l’ordine sociale e politico dei popoli indigeni, basato, a seconda delle condizioni climatiche, su pesca lacustre e marina, caccia, allevamento di renne e agricoltura a sud della frontiera del “permafrost”. Ai russi invece interessava prevalentemente il commercio di pellicce, anche se i contadini fuggiti dal servaggio si accontentavano di avere un pezzo di terra da coltivare in proprietà.
Inoltre, prima della colonizzazione gli indigeni professavano in maggior parte un animismo sciamanico. I russi invece portarono avanti una politica di acculturazione, cercando di integrare queste etnie nel cristianesimo ortodosso.
A partire dagli anni Quaranta del XVIII sec. erano già giunte, via mare, presso le coste settentrionali dell’America, oltre 80 spedizioni russe. La compagnia commerciale russo-americana, iniziando a sfruttare gli animali da pelliccia e le risorse minerarie delle suddette coste, arrivò a controllare tutta l’Alaska, le Aleutine e a porre nuovi insediamenti in California e nelle Hawaii. La sede centrale della Compagnia era a Irkutsk, presso il lago Bajkal.
L’America “russa” esistette sino a quando, nel 1867, fu venduta agli Stati Uniti per 7,2 milioni di dollari: una cifra che non corrispondeva certo al suo valore effettivo e che copriva appena le spese della colonizzazione, senza poi considerare l’importanza strategica di quei territori per la Russia. Il governo si vide costretto a questa decisione per una serie di ragioni logistiche ed economiche. Preferì puntare sulle regioni, non meno sconfinate, della Siberia occidentale, dove, sin dalla fine del XVII sec. abitavano circa 300 mila russi, praticamente lo stesso numero degli abitanti autoctoni, i quali spesso, come tributo, dovevano dare, essendo i coloni prevalentemente maschi, una parte delle loro donne.
Le principali cittadelle fortificate, destinate a trasformarsi in centri commerciali e amministrativi, erano Tobolsk, Okthotsk e Irkutsk. Sulle rive del Tobol, nel 1683-88, s’innalzò la cattedrale ortodossa di S. Sofia.
La prima città russa oltre il circolo polare artico fu Mangasea, costruita all’inizio del XVII sec.: vi si svolgeva un intenso commercio di pellicce, di tessuti, spezie orientali, gioielli, e fiorivano vari artigianati, specie quello dell’avorio. Uno dei monumenti architettonici più importanti dell’epoca fu la Cattedrale del Redentore, nella città di Zashiversk.
Negli anni Trenta del XVII sec. soltanto per la dogana di Mangasea passarono oltre mezzo milione di pelli di zibellino, senza contare quelle di volpe, ermellino e scoiattolo. Verso la metà dello stesso secolo i profitti ricavati dalla caccia siberiana costituivano 1/3 delle entrate del bilancio russo. All’inizio del XX sec. la Siberia fornirà ancora più dei 2/5 del valore totale delle pellicce mondiali.
L’Ottocento siberiano
La moderna cultura siberiana nacque in sostanza dall’unificazione di quella russa con quella autoctona, dove la prima giocava ovviamente un ruolo preponderante. Molti russi andavano in Siberia in cerca di terre libere da quel servaggio che dovevano subire nella parte europea del loro paese: le distanze e le ricchezze erano praticamente illimitate. Non c’era bisogno di sterminare le popolazioni locali, che peraltro, essendo molte esperte nella caccia e vivendo a livelli di sussistenza, potevano tornare comodo ai mercanti russi.
Tuttavia le condizioni di vita, in quell’ambiente così particolare, erano molto dure, e questo generava inevitabilmente degli attriti, anche perché le ondate migratorie venivano organizzate persino dal governo zarista, finendo col togliere molte terre a una popolazione indigena la cui crescita demografica era sempre stata notevole. Ai primi dell’Ottocento i siberiana era già di 1,5 milioni.
Altre conquiste fecero sì che nel 1834 i russi arrivassero a meno della metà della popolazione siberiana, mentre Tartari, Bielorussi, Ucraini, Polacchi, Ebrei e altre 200 etnie ne costituivano la maggioranza. Se alla metà del XIX sec. i siberiani erano pari a 2,6 milioni, alla fine dello stesso secolo erano già arrivati a 5,7 milioni, di cui 870 mila aborigeni. Una sproporzione così massiccia, in così poco tempo, non poteva non causare gravi problemi alle identità locali, anche perché i russi si sentivano molto più evoluti.
Nel periodo 1906-14 si trasferirono qui 3,7 milioni di persone, di cui un milione se ne tornò in Russia, a causa delle difficoltà ambientali che aveva incontrato. Al 1° gennaio 1914 la Siberia aveva 10 milioni di abitanti, a fronte di meno di un milione di indigeni autoctoni.
L’autocrazia zarista utilizzava quella regione anche come luogo di confino per gli oppositori politici o religiosi e anche per i criminali comuni, rinchiudendovi personaggi che tutto il mondo conosceva o che sarebbero presto diventati famosi: Dostoievskij, Cernyshevskij, Lenin, Stalin, Trotsky… Verso l’inizio del XX sec. vi si trovavano oltre 250 mila deportati, che lavoravano nelle miniere e nelle ferrovie o nelle fattorie agricole. Essi insegnavano ai siberiani a leggere e a scrivere, prestavano assistenza medica, diffondevano idee anti-zariste. In un secolo e mezzo i deportati dello zarismo erano stati oltre un milione.
Nel periodo zarista si diede anche inizio, nel 1891, alla più estesa opera di ingegneria sulla superficie terrestre: la linea ferroviaria transiberiana, resasi necessaria a causa del fatto che per attraversare quegli immensi territori, totalmente privi di strade, da Mosca a Vladivostok, ci volevano 3-4 mesi, mentre da Pietroburgo a Irkutsk, d’inverno, con una slitta trainata da cavalli, ci voleva circa un mese. Ancora oggi la Transiberiana è la ferrovia più lunga della Terra (9.288,2 km): ci vogliono nove giorni per attraversare 14 regioni e 100 popoli diversi, tre catene montuose, due repubbliche autonome, sedici grandi fiumi.
Appena terminata, tra il 1906 e il 1916 tre milioni di contadini si trasferirono dalla parte europea sovrappopolata, alla Siberia, ricevendo gratuitamente dei grandi appezzamenti agricoli dal governo, il quale sperava, dopo la sconfitta della guerra contro il Giappone, di creare qui uno spalto di protezione. I contadini siberiani cominciarono a produrre ed esportare nella parte europea molto frumento a buon mercato. Per salvare i contadini della parte europea dall’impoverimento, il governo mise allora un dazio speciale. Come conseguenza l’economia siberiana si convertì immediatamente a produrre il burro invece che il frumento.
Anzi, col calare dell’export di pellicce pregiate, andò progressivamente crescendo in Siberia l’importanza dell’agricoltura, anche perché restava molto forte la carenza del pane. Poiché nella parte occidentale vi erano molte terre fertili, si diffuse un’agricoltura controllata dallo zarismo, che verso la fine del XVII sec. era in grado di fornire 4 milioni di pud di grano all’anno (1 pud = 16,4 kg). Si era raggiunta l’autosufficienza, anzi si cominciò presto ad esportarne, al punto che nell’ultimo quarto del XIX sec. si producevano ben 3,5 milioni di pud di cereali oltre il fabbisogno della regione: cifra che saliva a 20 milioni agli inizi del XX sec.
Anche l’allevamento del bestiame, grazie alla Transiberiana, registrò grandi progressi: all’inizio del XX sec. la Siberia deteneva uno dei primi posti in Russia quando al patrimonio zootecnico pro-capite. Alla vigilia della I guerra mondiale il fisco dello zar riceveva per il burro siberiano non meno oro, dal mercato mondiale, di quello che veniva estratto negli stessi giacimenti della regione.
A proposito di oro, va detto che gli abitanti autoctoni, legati prevalentemente alla caccia e all’allevamento nomade, non davano alcun valore alle risorse minerarie, che invece erano enormi. Non c’era solo oro, ma anche argento, rame, stagno, piombo, ferro, nonché perle e pietre semipreziose. I primi stabilimenti per la fusione dell’argento nacquero nel primo quarto del XVIII sec. Se ne trovò così tanto che nella prima metà del XIX sec. il solo circondario dei monti Altai ne produceva di più che Inghilterra, Francia, Svezia, Prussia e Belgio messi insieme.
Negli stessi monti fu poi trovato l’oro, anche se la maggior produzione fu registrata nel circondario di Jenissei. Nel 1859 i campi auriferi erano arrivati a 247. Alla fine dello stesso secolo la Siberia forniva il 90% di tutto l’oro russo. L’estrazione era così importante che nel XVIII sec. s’era inventata la prima macchina a vapore ad azione doppia, senza precedenti storici, nonché un sistema idroenergetico sotterraneo che poteva competere con qualunque macchina di funzione analoga del mondo.
Alla fine del XIX sec. negli Altai fu costruita la prima centrale idroelettrica ad uso industriale del mondo. Una catena di sei centrali idroelettriche funzionava presso i campi auriferi del Lena, nella Siberia orientale. Sempre qui entrò in esercizio una delle prime linee elettriche ad alta tensione. Il lavoro industriale connesso all’oro, in questa regione così difficile, era durissimo: un grande sciopero del 1912, nei campi auriferi del Lena, venne represso nel sangue dallo zarismo.
Se l’oro e l’argento siberiani avevano un’importanza strategica nell’economia della Russia, l’incidenza dei metalli ferrosi restava ancora molto bassa: alla vigilia della I guerra mondiale la Siberia dava soltanto l’1,5% della produzione industriale lorda dell’impero, mentre la quota dell’oro si aggirava sul 19%. L’industria manifatturiera preferiva concentrarsi sulla lavorazione primaria delle derrate agricole: burro (40% del totale, nel 1913), altri prodotti alimentari il 24%. Le pellicce non superavano il 15%.
Si può dire che sino agli inizi del Novecento le regioni dell’estremo nord rimasero indenni dall’avanzata russa, sicché poterono fungere da aree di rifugio per le popolazioni indigene.
Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla II guerra mondiale
Durante la Rivoluzione d’Ottobre i partiti borghesi delle regioni cosacche cercarono di staccare la Siberia dalla Russia europea, ma non vi riuscirono; anzi, nel periodo controrivoluzionario del 1918-20 la popolazione urbana di questa regione ebbe 100 mila morti in difesa dell’Ottobre.
Nel 1919, dopo aver nazionalizzato tutto, Lenin sostenne l’idea di creare un potenziale industriale sfruttando le risorse degli Urali e del Kuzbass. L’idea era ottima ma la realizzazione del progetto iniziò soltanto un decennio più tardi, con la costruzione a Kusnezk e Magnitogorsk di due grossi complessi siderurgici a ciclo completo, che poi si conclusero nel 1932. A tempi di record si crearono altri grandi impianti industriali, altiforni e sistemi Martin, nuovi treni blooming e laminatoi.
Verso la metà degli anni Venti la popolazione urbana era cresciuta già del 20% rispetto ai tempi della guerra civile. Nello stesso periodo vi affluirono in quella regione circa un milione di contadini. Anzi nel biennio 1921-22 oltre un terzo del milione e mezzo che soffrì la durissima siccità, si trasferì proprio qui, poiché sembrava che la Siberia fosse diventata la panacea per i problemi più gravi del paese.
La devastazione ambientale della regione iniziò alla fine degli anni Venti, con l’inizio dell’industrializzazione, che lo stalinismo voleva a tappe forzate. Molti centri industriali furono spostati a est, ove presero a lavorare milioni di operai. Dal 1929 al 1933, soltanto nella regione industriale di Kuzbass, la popolazione urbana era aumentata di 4,5 volte.
Se negli anni della I guerra mondiale la demografia urbana costituiva il 4% del totale, alla fine degli anni Trenta era già salita al 55%. Nel periodo compreso fra i censimenti degli anni 1926 e 1939 il totale degli abitanti urbanizzati era più che triplicato in Siberia, superando notevolmente i ritmi nazionali.
Lo stalinismo aveva scelto di utilizzare questa regione come una colonia interna, cui far pagare nel modo più pesante i costi dell’industrializzazione del paese. I contadini si videro privati di terre, risorse, spazi naturali incontaminati, furono costretti in massa a diventare operai o a emigrare o ad accettare le regole della collettivizzazione forzata.
All’inizio degli anni Trenta la popolazione urbana era arrivata al 60% del totale: gli stessi autoctoni emigravano in massa dalle loro campagne per trasferirsi nelle città della loro regione, che alla fine di quel decennio si erano quadruplicate, giungendo a circa 200. Praticamente nel corso dei primi due piani quinquennali dell’intera nazione (1929-32 e 1933-37) il numero degli operai e degli impiegati in Siberia era cresciuto di 4,5 volte (nel resto del paese solo di 2,5).
Le 30 etnie indigene erano diventate un’infima minoranza rispetto non solo ai russi, ma anche agli ucraini, bielorussi, tedeschi, polacchi, estoni e lituani, giunti qui per lavorare. Nel 1937 un decreto sovietico impose l’uso esclusivo dell’alfabeto cirillico per tutte le lingue dell’Urss. A partire del 1957 ogni insegnante poteva essere arrestato se continuava a parlare la lingua indigena al di fuori della scuola. I genitori vennero costretti a battezzare i loro figli con nomi russi. Il governo costrinse molti nomadi a diventare sedentari. Dopo il 1970 fra tutte le 26 lingue indigene del Nord della Russia solo il nencio continuerà ad essere insegnato a scuola.
Ormai gli unici veri problemi di convivenza che il governo considerava tali erano quelli tra gli stessi immigrati di origine europea, per la qual cosa si fu costretti a creare centinaia di unità amministrative territoriali aventi una struttura nazionale omogenea. Nel 1933 gli operai russi, nei settori strategici dell’industria pesante della Siberia occidentale, costituivano l’86% di tutta la manodopera; i kazakhi il 6%; gli ucraini il 3%; i bielorussi l’1%; i tedeschi e gli ebrei lo 0,3%.
La quinta parte della popolazione urbana era concentrata nelle grandi città di Novosibirsk, Omsk, Irkutsk…, ma l’industrializzazione arrivò a toccare i remotissimi territori del nord: Norilsk, Igarka, Salekhard, Khanty-Mansijsk ecc. E la manodopera, come noto, non era certamente tutta volontaria, né soltanto motivata da favorevoli condizioni economiche: moltissima parte proveniva dagli effetti disastrosi del culto staliniano della personalità.
Nel 1929 a Novosibirsk fu pubblicato il libro La conquista degli spazi interplanetari, di un modesto ingegnere di un’azienda locale, J. Kondriatuk, che aveva scoperto la formula del moto dei razzi a più stadi e che col tempo risolse molti altri importanti problemi della cosmonautica. Quarant’anni dopo quella scoperta, la rivista americana “Life” ammise che nel volo dell’Apollo sulla Luna gli scienziati avevano usato i calcoli di Kondriatuk. Unica nel suo genere, Novosibirsk era arrivata al suo milionesimo abitante in meno di 70 anni; a Mosca ne erano occorsi 700.
Negli anni 1933-37 gli stabilimenti metallurgici della Siberia occidentale erano i maggiori della Russia, in grado di fornire oltre la metà dell’acciaio e della ghisa di tutto il paese, e ai costi più bassi. Nei primi due piani quinquennali la potenza delle miniere del Kuzbass aumentò di 10 volte. Tutta la Siberia occidentale era un immenso cantiere industriale, e la Transiberiana fu notevolmente potenziata proprio per questa ragione.
Già nel 1933 il complesso “Urali-Kusnezk” produceva 1/5 del carbone nazionale, 1/4 della ghisa, 1/6 del coke, 1/4 della chimica fondamentale. Il numero delle imprese della grande industria, rispetto agli indici dell’impero zarista, era stato decuplicato. Se nei due primi quinquenni di sviluppo economico la produzione lorda dell’industria pesante in Urss era aumentata di cinque volte, in Siberia lo era stata di nove volte. La stessa industria pesante costituiva la metà della produzione industriale in generale.
Alla vigilia della II guerra mondiale la regione degli Urali riceveva ogni anno cinque milioni di tonnellate di carbone dal Kuzbass e vi inviava oltre due milioni di tonnellate di minerale di ferro.
Nel 1937 iniziò la progettazione di una nuova linea ferroviaria, detta Bajkal-Amur (BAM), per garantire un nuovo accesso al Pacifico e al Mar Glaciale Artico. Oggi la linea supera i 4,3 mila km e, per realizzarla, ci sono voluti 150 grandi ponti e 30 tunnel scavati nei monti, a temperature che arrivavano anche a -60° C., tali per cui i guasti delle locomotive e delle macchine in generale aumentavano di circa nove volte.
Con questa linea e con la Transiberiana si arrivava a gestire il 40% di tutti i trasporti ferroviari della Russia. La BAM costò quasi 10 miliardi di rubli: il doppio di quello che si era preventivato. Delle 45 città e borgate previste se ne realizzarono completamente solo 12. E tuttavia la BAM era in grado di valorizzare a livello industriale una zona la cui estensione geografica era pari a tutta l’Europa occidentale. Il principale partner per la valorizzazione di quest’area è ancora oggi il Giappone, ma sta per essere superato dalla Cina.
Con questo progetto e con gli altri tre precedenti (Urali-Kuzbass, Angara-Jenissei e Siberia occidentale) la Siberia, nella II metà del XX sec. era entrata nel novero dei giganti industriali di portata mondiale.
Dalla II guerra mondiale ad oggi
Durante la II guerra mondiale il comando politico-militare nazista sottovalutò enormemente il fatto che la Siberia era in grado di fornire a tutto il paese un ottimo apparato industriale e alimentare, nonché un rifugio sicuro per milioni di evacuati e di feriti, per non parlare del notevolissimo apporto di militari da mandare sui vari fronti: più di tre milioni, cioè 1/5 di tutta la popolazione siberiana, di cui solo la metà sopravvisse, facendo calare il tasso di natalità di quasi tre volte (da 24 a 9 su mille abitanti).
Per le tre grandi battaglie combattute in difesa di Mosca, Leningrado e Stalingrado, i siberiani fornirono, nella prima, 14 divisioni di fanteria, 2 di cavalleria e 4 brigate di fanteria; nella seconda, 10 divisioni di fanteria e nella terza 18 divisioni di fanteria e 4 brigate. Una divisione siberiana contribuì alla liberazione della Polonia, un’altra di quella della Bulgaria, addirittura 10 per liberare Berlino e tante altre unità militari finirono per liberare la Cecoslovacchia, l’Ungheria ecc.
Quando l’Urss dichiarò guerra al Giappone fu grazie all’organizzazione della Transiberiana che si poterono traslocare in tre mesi nell’estremo oriente sovietico, contro l’armata del Kwan-Tung circa 40 divisioni e brigate, 2 corpi d’armata e 3 divisioni aeree, superando di due volte le forze dell’avversario.
La quota della Siberia negli investimenti nazionali per la produzione su larga scala di materie prime strategiche, mezzi bellici, armi, munizioni, generi alimentari e rifornimenti militari era passata dal 7% nel 1940 al 18% nel 1942. In quest’ultimo anno essa era in grado di fornire 1/3 della ghisa nazionale, quasi la metà del coke, 1/3 del manganese (insieme agli Urali dava il 100% di questi prodotti strategici).
L’incidenza dei bacini carboniferi sulla produzione nazionale era passata dal 19% nel 1940 al 38% nel 1942. I 3/4 dell’energia elettrica del paese venivano prodotti qui. Grazie alla sola regione Urali-Kuzbass, l’Urss era in grado di sostituire il potenziale metallurgico che nella parte sud-occidentale del paese era caduto in mano nazista. Già verso il 1943 la Russia poteva superare la Germania nella produzione del metallo di alta qualità.
Senza questi presupposti sarebbe stato impossibile rimettere in funzione, in 3-4 mesi, le migliaia (500 in Siberia occidentale) di imprese evacuate dalle regioni occupate dalle armate hitleriane. Nei primi due anni di guerra il volume della produzione metalmeccanica aumentò in Siberia di 8 volte e di ben 13 volte quello delle industrie militari. Essa era diventata, dopo gli Urali, il secondo arsenale industriale e militare del paese.
Si sono spesso voluti esagerare gli aiuti militari che l’Urss ricevette dagli angloamericani contro i nazisti. Ebbene, mentre gli alleati, per tutta la durata della guerra, rifornirono l’Urss di 18.000 aerei, il solo stabilimento di Novosibirsk riuscì a produrne 15.000, praticamente 1 su 10. Un solo stabilimento siberiano, dal 1942 alla fine della guerra, fabbricò 10.000 motori per carri armati (1/10 del totale).
Le conseguenze della guerra si fecero ovviamente sentire anche su questa regione, benché i nazisti non fecero in tempo ad occuparla. Il legname diminuì del 4%, i mattoni della metà e il burro di 3/4. Gravi danni subirono i contadini, a causa delle requisizioni forzate di viveri e anche perché nei villaggi restavano solo vecchi, donne e bambini: i prodotti agricoli diminuirono del 50%. Nonostante questo i contadini riuscirono a consegnare allo Stato, nei quattro anni di guerra, oltre 700 milioni di pud di grano (1/6 di tutti gli ammassi di cereali del paese).
Finita la guerra andarono a lavorare in Siberia e nell’Estremo Oriente circa 800 mila ex-soldati e ufficiali. Nella seconda metà degli anni Cinquanta il numero degli ex-militari di carriera che si trasferì qui per motivi di lavoro aumentò considerevolmente: molti sentivano nei confronti della Siberia un debito di riconoscenza. Il sogno romantico di fare qualcosa per questa regione coinvolse soprattutto i giovani, che ancora nel ventennio 1965-85 offrivano in centinaia di migliaia la propria disponibilità a valorizzare i giacimenti petrolmetaniferi. Ciò che li spingeva non era solo la curiosità per dei luoghi sconosciuti o il fatto che salari e stipendi fossero più alti ma anche il desiderio di essere coinvolti in qualcosa di significativo per il paese.
Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si costruirono potenti centrali idroelettriche, da un minimo di 4 milioni di kw a un massimo di 6,4 milioni, in condizioni climatiche proibitive. In quelle di Irkutsk, Bratisk e Krasnojarsk si utilizzarono metodi di gettata di calcestruzzo e di riporto della diga senza precedenti mondiali. Queste tre centrali rimasero le più potenti del mondo per lungo tempo. Per i costi specifici di costruzione erano anche le più economiche del mondo e compensavano rapidamente le somme investite.
Ancora oggi quelle della regione di Angara-Jenissei sono al primo posto in Russia: le sole centrali di Bratsk e di Ust-Ilimsk producono una quantità di energia elettrica pari a quella nazionale anteriore alla II guerra mondiale (delle due la prima, da sola, copre un fabbisogno esteso oltre 100 mila kmq).
L’attenzione per le centrali elettriche e per il carbone diminuì soltanto quando ci si accorse che la Siberia era strapiena di risorse petrolmetanifere. Le prime prospezioni erano state fatte nel lontano 1907, ma solo nel 1929 s’era trovato il primo pozzo significativo di petrolio nella provincia di Uralo-Volshskaja, e soltanto nel 1952, presso Beriosovo, si trovò un importante pozzo metanifero che gettava gas per un’altezza di 50 metri: per domare il flusso di oltre un milione di metri cubi di gas ci vollero sette mesi. Nel 1959, nella regione di Tiumen si scoprì una falda petrolifera con una capacità giornaliera di oltre una tonnellata di greggio. Negli anni Sessanta la Siberia era in grado di fornire la metà degli idrocarburi all’intera Unione Sovietica.
Col tempo si poté facilmente constatare che i giacimenti della Siberia occidentale erano concentrati su un territorio con poca profondità e con un’elevata potenza degli strati. Quando furono scoperti oltre 400 giacimenti di gas e petrolio, la Russia acquisì la leadership mondiale per le risorse del gas naturale. I giacimenti migliori si trovavano nel medio corso dell’Ob, sul territorio della regione di Tjumen, fra paludi sconfinate, la cui vastità supera quella di Regno Unito, Francia, Italia e Germania messi insieme. Qui ogni anno si estraggono 300 milioni di tonnellate di petrolio e 140 milioni di metri cubi di gas.
Nel periodo 1971-85 furono costruite, nelle zone petrolmetanifere della Siberia occidentale, 16 milioni di mq di abitazioni ad uso civile, scuole per oltre 60.000 studenti, unità prescolastiche per 50.000 bambini, circa 200 tra club e ritrovi culturali, 30 scuole musicali e 170 biblioteche.
Singolare il fatto che mentre il mantenimento di ogni persona nella regione settentrionale di Tjumen costava allo Stato 40.000 rubli annui, nel 1984 nella stessa regione, delle 600 persone giornaliere che arrivavano, oltre la metà, dopo un po’, se ne andava, insoddisfatta del tenore di vita. Molti peraltro si chiedevano che cosa sarebbe rimasto di queste zone una volta che i giacimenti di gas e petrolio avessero esaurito le loro riserve.
Gli scienziati sostenevano che quelle vicine al Circolo polare sarebbero durate per secoli. Ma la gente proveniente dalla Russia europea non era mentalmente attrezzata a vivere in situazioni del genere: si sentiva come gli americani che costruivano paesi in prossimità dei giacimenti di oro e argento e che poi improvvisamente dovevano partire perché la miniera s’era esaurita, trasformando quelle città in sinistri fantasmi.
Il governo cercò di rimediare a questi inconvenienti promuovendo le cosiddette “squadre volanti”: trivellatori, petrolieri, edili venivano portati sui luoghi di lavoro con gli aerei, per 2-4 settimane, dopodiché venivano sostituiti con altri lavoratori. In tal modo non perdevano la loro residenza fissa in Ucraina, Transcaucasia, Kazakistan ecc., inoltre si riduceva la costosa edilizia abitativa e si evitava di provvedere alle spese degli altri componenti familiari.
Tuttavia anche questo sistema di spedizioni a turno funzionò poco: bisognava adattarsi a un costante alternarsi di lunghi periodi di attività e di riposo, che producevano notevoli stress fisici e mentali, anche a causa delle condizioni ambientali molto diverse tra loro.
Eppure si era consapevoli che non sarebbe stato possibile rinunciare a una ricchezza del genere: negli anni 1986-90 la Siberia petrolmetanifera occidentale assicurava, da sola, i 2/3 della produzione nazionale di idrocarburi. Verso la fine del XX sec. si estraevano qui i 3/4 del petrolio e gas della ex-Urss. Se alla formazione del pil nazionale la Siberia contribuiva per l’8% nel 1940, nel 1989 la quota era già salita al 23% (anche se dopo il crollo dell’Urss il pil nel 1998 era diventato meno della metà di quello dell’89).
Il primo convegno internazionale sulle enormi ricchezze energetiche della Siberia si tenne a Parigi nel 1982, dove, tra le altre cose, si disse che la Russia era all’avanguardia nella tecnologia della saldatura dei tubi e nella perforazione multipla dei pozzi. Negli stabilimenti petrolmetaniferi della zona occidentale sono impiegati ancora oggi circa un milione di operai.
Dal 1965 al 1986 la produzione petrolifera siberiana passò da un milione di tonnellate al giorno ai 400 milioni, dopo aver perforato un sottosuolo più vasto dell’Italia di oltre 100 mila kmq: era la sesta parte di tutto il petrolio mondiale, anche se lo si utilizzava prevalentemente nei paesi che facevano parte della ex-Urss. Praticamente il 20% degli investimenti della Russia era destinato alle condotte degli idrocarburi.
Il gas invece era talmente tanto (superiore a quello dell’Europa occidentale e del Medio Oriente messi insieme, ovvero circa 1/5 di tutte le riserve mondiali) che l’export fu subito necessario. Solo per fare un esempio, da Urengoi partono sei gasdotti di 1,5 metri di diametro e di oltre 200 mila km di lunghezza: non ci sono eguali nel mondo. Per fare un km al giorno di tubazione ci sono voluti 1500 operai, mentre in Alaska, dove le difficoltà sono analoghe, ce ne vogliono, ancora oggi, 3200. La differenza sta nel livello di automazione delle saldature.
I primi contratti tra alcuni paesi europei e la Russia, per le forniture di gas, furono firmati all’inizio degli anni Ottanta. Dopo lo choc petrolifero della prima metà degli anni Settanta, i paesi europe avevano molta fame di energia. Gli Usa tentarono di minare la costruzione della superconduttura siberiana prospettando sanzioni contro chi avesse fornito macchinari avanzati ai russi. Non si rendevano assolutamente conto che la Siberia era da tempo in grado di provvedere da sé alla bisogna.
Già verso la prima metà degli anni Ottanta essa era in grado di coprire le necessità di gas della Francia per il 14%, della Germania per il 20%, dell’Italia per il 34%, dell’Austria per il 67% e della Finlandia per il 100%. Il 54% dei redditi dell’ex-Urss erano ricavati dall’export di questo prodotto. Per cercare di ricavare redditi maggiori il governo russo, negli anni 1975-80, cercò di costruire delle centrali petrolchimiche a Omsk, Tomsk e Tobolsk, onde trasformare in loco gli idrocarburi.
La trasformazione autonoma della materia prima non serve solo per esportare a prezzi assai maggiori i prodotti finiti o semilavorati, ma anche per diversificare l’attività lavorativa e per dare maggiore indipendenza economica a questa immensa regione, togliendole di dosso l’etichetta di colonia da sfruttare in maniera intensiva soltanto per le sue materie prime. Tuttavia l’industria di trasformazione è ancora ben lontana dall’aver raggiunto un livello soddisfacente. La Russia esporta quasi il triplo di quello che importa: solo i minerali e metalli semilavorati coprono più della metà dell’export e sono pari, in valore, al totale dell’import. Andando avanti di questo passo la Russia rischia di diventare un paese del Terzo Mondo, unicamente in grado di esportare materie prime.
La Russia è oggi con il 26,7% il primo produttore mondiale di gas e prevede di quintuplicare nell’arco di venti anni le sue riserve accertate. Per quanto riguarda il greggio, la cui produzione oggi è di 555 milioni di tonnellate, pari al 14,3% del totale mondiale, si prevede, secondo stime Ocse, che raggiungerà la soglia degli 800 milioni di tonnellate nel 2020, pari al 20% dell’attuale produzione mondiale. La Gazprom, la società fornitrice di gas a partecipazione statale, che opera in regime di monopolio, è la pedina più importante e oggi si colloca al terzo posto, dopo Exxon Mobil e General Electric, con 300 miliardi di dollari di capitalizzazione e ha superato la Mircosoft, la cui capitalizzazione è di 280 miliardi.
La Germania è il maggior cliente del gas russo, acquisendo circa il 18,7% delle sue esportazioni. A oriente Mosca stringe alleanze sempre più strette con Pechino. La Gazprom fornirà alla cinese Cnpc 80 miliardi di metri cubi di gas l’anno, pari circa al fabbisogno energetico annuo dell’Italia, ed entro il 2010 i due paesi puntano a raddoppiare gli scambi commerciali di energia. Inoltre si prevedono investimenti in infrastrutture che portino alla costruzione di un gasdotto, dal nome “Altaj”, che collegherà la Siberia alla Cina e che presumibilmente verrà realizzato entro il 2011-2012.
La Siberia ha oggi 100 città (il 70% della popolazione), di cui tre hanno superato il limite del milione e altre sei il mezzo milione. Il Distretto Federale di Siberia (la cosiddetta “Siberia occidentale”) ha una superficie di oltre 5 milioni di kmq e una popolazione di oltre 20 milioni di abitanti. Considerando anche l’Estremo Oriente Russo (la cosiddetta “Siberia centrale e orientale”) si arriva a circa 30 milioni di abitanti (1/5 dei 142 milioni dell’attuale Federazione Russa, che ha dovuto rinunciare nel 1991 a 1/4 dei suoi precedenti territori “sovietici” con oltre la metà dei suoi abitanti). Le condizioni climatiche più favorevoli lungo la Transiberiana permettono di avere 30 abitanti per kmq, ma nella parte settentrionale ve n’è solo uno per kmq. L’età media in questa regione è bassissima: 27 anni.
Il 25% delle riserve mondiali di legname ed il 27% delle riserve mondiali di carbone sono concentrate in questa regione. Il 32% del gas mondiale ivi presente è soltanto quello ottenuto da prospezioni fatte nel passato. I giacimenti di minerali di ferro ammontano ad oltre 7 miliardi di tonnellate, mentre quelli di minerali di manganese sono pari a circa 100 milioni di tonnellate. L’82% dell’alluminio della Russia ed il 61% del rame raffinato sono prodotti in Siberia. Il 60% delle forniture mondiali di torba proviene dalla Siberia, che da sola produce il 60% del greggio e del gas dell’intera Federazione, il 40% dell’export petrolifero, 1/4 del budget nazionale.
I redditi dei lavoratori sono ovviamente superiori rispetto a quelli dei loro colleghi della parte europea, ma non tanto da coprire il dislivello delle spese per vivere in un ambiente così difficile: i costi per l’affitto, l’alimentazione, i servizi sociali, i trasporti superano del 50% quelli di qualunque altra parte della Russia. Le condizioni del clima comportano pesanti costi: a -40 gradi l’acciaio diventa fragile, la gomma si disgrega, l’olio lubrificante si solidifica, ogni attività deve cessare. Mezzi di trasporto e macchine si guastano continuamente. I muri devono essere più spessi che nella Russia europea e le condutture interrate a una profondità tre o quattro volte superiore.
La produzione agricola locale è largamente insufficiente. L’arrivo irregolare dalle regioni europee dei rifornimenti di carne, frutta e legumi freschi crea gravi disagi. Non a caso la Siberia ha oggi un saldo migratorio negativo a favore della Russia europea. Dopo essere più che raddoppiata fra il 1920 e il 1955, da 10 a 23 milioni di abitanti, la popolazione è aumentata di soli 5 milioni di abitanti nei tre decenni successivi, e solo grazie ad una natalità più elevata che nella Russia europea.
Il fatto è che in passato si riteneva inutile, a causa delle dure condizioni ambientali, fare investimenti nel settore agricolo e si preferiva puntare sull’importazione, nella consapevolezza che ciò non avrebbe inciso sulla bilancia dei pagamenti, visto che il territorio era ricchissimo di risorse strategiche. Oggi invece si è arrivati alla conclusione che se la produzione alimentare non raddoppia, utilizzando le serre, le selezioni accurate del bestiame e altri accorgimenti tecnici, il costo della vita rischierà di diventare proibitivo in questa regione, anche perché è finita da un pezzo l’epoca degli incentivi statali.
La Siberia è anche un immenso campo di sperimentazioni scientifiche, una specie di università permanente. Già nel 1957, presso Novosibirsk, cominciò come esperimento socio-scientifico la costruzione di Akademgorodok, fra boschi di betulle e pinete, dove vengono studiati l’irrigazione nelle steppe aride, il drenaggio dei terreni paludosi, l’ibridazione delle specie vegetali, la costruzione di reattori nucleari, l’automazione delle installazioni petrolmetanifere, le lingue delle popolazioni indigene ecc.
Col tempo questo centro scientifico è diventato una fucina di quadri di alta qualificazione, che hanno permesso di creare istituti di fisica, chimica, biologia e genetica, geologia, ecologia, matematica, meccanica applicata e idrodinamica, scienze umanistiche… Ora i centri scientifici sono tantissimi: sino al crollo dell’ex-Urss nella sezione siberiana dell’Accademia delle Scienze vi lavoravano 50.000 specialisti.
Nell’ultimo decennio, a partire dal 1997, quando la Russia di Eltsin era sull’orlo della bancarotta, hanno cominciato a verificarsi due fenomeni paralleli: flussi migratori di russi dall’area asiatica a quella europea, flussi di immigrati cinesi (soprattutto agricoltori) verso l’area asiatica della Russia, praticamente da Vladivostok agli Urali.
Secondo le stime ufficiali del Cremlino lungo il confine russo-cinese si troverebbero attualmente 250-300 mila clandestini. Gli esperti indipendenti sostengono però che gli immigrati illegali potrebbero già essere arrivati a 1,5 milioni. Senza elettricità, senza acqua corrente, gli abitanti dei villaggi-fantasma sono coinvolti nella produzione abusiva di legname, nella coltivazione di patate, mentre percorrono la tajga siberiana in cerca di oro, di gingseng, di piante curative e di animali ampiamente usati dalla medicina tradizionale cinese.
Si ritiene che nel 2010 in tutto il suo Oriente estremo la Russia non avrà più di quattro milioni di cittadini, mentre sulle frontiere meridionali si appoggiano gli abitanti delle province cinesi di Jelin, Heilongjiang, Liaoning, che significa cento milioni di persone. L’economia del Far East russo, forziere di infinite materie prime (legno, oro, diamanti, ma anche gas e petrolio), è in via di progressiva, massiccia cinesizzazione. Mosca sembra non faccia nulla per chi vive oltre il lago Bajkal. E i cinesi è dal 1967 che rivendicano come propri molti territori russi.
Già adesso in Siberia le società cinesi stanno per ottenere dalle autorità russe concessioni per avviare la produzione industriale di legname su terreni di milioni di ettari; nella regione di Sverdlovsk, il cuore industriale degli Urali. Le autorità russe sembrano disposte a cedere in affitto ai cinesi, per 49 anni, centinaia di migliaia di ettari di terreni coltivabili abbandonati. Nella regione di Tjumen, ricca di petrolio e di gas, la Cina intende ottenere dalla Russia un milione di ettari di taiga, da utilizzare per produrre legname, carta e cellulosa.
Pechino rafforza le pressioni su Mosca perché aumenti le esportazioni in Cina di materie prime: nei primi sette mesi del 2006 le forniture di greggio dalla Russia sono aumentate del 23% rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. Pechino ritiene che entro il 2020 la Cina investirà in progetti russi fino a 20 miliardi di dollari. Il colosso russo Transneft ha intenzione di avviare la costruzione dell’oleodotto Siberia-Cina nel secondo trimestre del 2009, per terminarla entro il 2015.
I problemi ambientali
Il presidente americano J. F. Kennedy ebbe a dire che “disponendo della metà delle riserve mondiali, la Siberia è il grande asso nella manica dei russi”. In effetti in Siberia si trova di tutto in grande quantità: carbone, manganese, nichel, rame, ferro, stagno, zinco, piombo, bauxite, cobalto, petrolio, gas, oro, diamanti, platino, uranio… I settori-chiave che determinano il progresso tecnologico sono quelli elettroenergetici, petrolchimici, la chimica della sintesi organica, la produzione di alluminio e di altri metalli non ferrosi e rari, la metalmeccanica, l’industria cartaria e di cellulosa.
In una situazione del genere gli inquinamenti ambientali sono semplicemente spaventosi. Gli esempi praticamente infiniti. Di recente la miniera di uranio a Oktjabrskoje, la più grande della Russia e una delle maggiori al mondo, scoperta nel 1962, in grado di rispondere alla metà del fabbisogno nazionale per usi militare e civile, sta compromettendo seriamente la sopravvivenza di millenovecento abitanti con le loro seicento case.
I progetti previsti per estrazione di gas nel campo di Juschno Russkoje e di Novy Urengoj minacciano pesantemente l’esistenza dei 41.302 Nenzi, che basano la loro vita sulle grandi mandrie di renne. Sulla penisola di Jamal, dove giace il 61% del gas e il 15% delle riserve di petrolio russe, vivono circa 4.700 Nenzi che tuttora praticano il nomadismo.
Questi son solo piccolissimi esempi. In realtà gli effetti dell’industrializzazione sull’ambiente sono stati particolarmente devastanti. La Siberia è ancora oggi il secondo serbatoio di ossigeno sul pianeta, dopo le foreste del Rio delle Amazzoni, ma come queste rischiano progressivamente di scomparire, per far posto agli arativi, al legname e allo sfruttamento di altre risorse, così non sembra essere diverso per la Siberia, benché si sia cercato di dotare le aziende di ciminiere alte sino a 360 metri, di depuratori per le ceneri delle grandi centrali elettriche e per la polvere di carbone delle cave.
Ogni anno servono 160 miliardi di metri cubi di ossigeno per far funzionare le centrali elettriche. E non c’è solo carbone ed elettricità, ma anche petrolio e gas. Per costruire gli impianti estrattivi si devono tagliare milioni di metri cubi di legname, eliminare la coltre vegetale della tundra, distruggere i pascoli delle renne, che sono gli animali più importanti per gli abitanti di molte aree della Siberia.
La natura settentrionale di questa regione è molto delicata: il solco lasciato da un cingolato nella tundra rimane per mezzo secolo. Per avere uno strato alto un centimetro di lichene, ci vogliono cinque anni. Peraltro la violazione del gelo perenne provoca, in maniera irreversibile, l’erosione dei suoli, l’impaludamento di grandi aree. Nella taiga gli alberi crescono molto lentamente e il rimboschimento, dopo il taglio, è un processo assai lungo. La capacità di autodepurazione dei fiumi siberiani è più bassa di quelli europei dato che il freddo diminuisce la quantità di ossigeno contenuta nelle loro acque e il gelo blocca per molti mesi tutti i processi biologici.
Per costruire le centrali idroelettriche si sono creati degli invasi artificiali non meno grandi, per volume d’acqua, di quelli naturali. La diga della centrale di Irkutsk ha elevato il livello del lago Baikal di quasi un metro, sconvolgendo la linea costiera. L’inquinamento chimico di questo lago (che da solo possiede la quinta parte delle risorse mondiali di acqua dolce, avendo una superficie di 31.500 kmq e una profondità massima di 1620 metri) è cosa nota da tempo.
Qualcosa s’è fatto per rimediare ai guasti, ma o si chiudono gli stabilimenti di carta e cellulosa della zona, o il suo destino è segnato, nonostante che l’Unesco l’abbia considerato un patrimonio dell’umanità. Solo dalle emissioni di gas e polvere del complesso industriale ad esso limitrofo cadono ogni anno quattro tonnellate di particelle solide su un kmq. Il cloro, il biossido di azoto e altre sostanze nocive stanno provocando la morte dei boschi di conifere. I danni ecologici arrecati superano di molte volte i vantaggi economici ottenuti dall’industrializzazione.
Un numero incalcolabile di ettari di terra produttiva oggi è praticamente inutilizzabile: l’invaso di Bratsk ha sommerso 75.000 ettari di boschi e terreni coltivabili (furono tagliati 30 milioni di metri cubi di legno e per altri 10 mancò il tempo). La centrale di Ust-Ilimsk eliminò altri 24.000 ettari di terreno fertile. E così via: ormai le proporzioni dell’impatto umano sulla natura sono paragonabili a dei processi geologici veri e propri. E non dimentichiamo che agli inquinamenti dovuti all’uso civile si sono andati sommando, negli anni passati, quelli dovuti all’uso militare nucleare.
Altri esempi ci possono indicare, a grandi linee, la portata del disastro. Prima dell’inizio dell’epopea petrolmetanifera nella golena dell’Ob, la regione di Tiumen forniva all’economia nazionale oltre 1/5 di tutto il pesce pescato nelle acque interne della ex-Urss. Da quando nei fiumi e nei laghi sono finite migliaia di tonnellate di petrolio il disastro è stato totale: una sola tonnellata di petrolio è in grado di coprire di una pellicola impenetrabile 25 kmq si superficie acquatica.
All’inizio degli anni Ottanta l’emissione di sostanze nocive da tutte le fonti di inquinamento dell’industria petrolifera raggiungeva 1,5 milioni di tonnellate l’anno. Questa cosa cominciò a preoccupare il governo, che nella prima metà dello stesso decennio provvide a far depurare le acque e i terreni inquinati dal petrolio usando i batteri. S’era infatti scoperto che per ripulire in breve tempo un ettaro di terra bastavano 20 grammi di preparato batteriologico.
Anche le foreste di pino coreano dell’estremo oriente russo hanno subito un forte disboscamento nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, con una impennata negli anni novanta, in parallelo al disfacimento dell’Unione Sovietica. Oggi queste foreste sono dimezzate e ne restano meno di tre milioni di ettari. Prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice forestale russo, nel 2007, il pino corano godeva dello status di specie protetta dall’utilizzo commerciale. Ora il pino coreano ha perso questo status e l’aumento della domanda internazionale ha fatto di questa specie una facile preda del taglio illegale.
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