Cadono le frontiere, tutti possiamo andare dappertutto, ci si mescola, ci si confonde e tuttavia l’incontro con lo straniero, l’Altro continua a mettere in crisi.
La psicologia biologico-evoluzionista spiega la nostra tendenza ad essere ostili verso chi non appartiene al nostro gruppo come risultato del lungo processo evoluzionistico di adattamento. La tendenza a riconoscere come nemici gli individui appartenenti a gruppi estranei e la tendenza a favorire i membri del proprio gruppo ha una chiara funzione adattiva.
Nell’ “etica del piccolo gruppo” era assicurato il successo riproduttivo: ogni intervento a sostegno di un membro favoriva la propagazione dei geni di chi lo metteva in atto. Nel corso dell’evoluzione si sarebbe dunque sviluppata una propensione su base innata ad essere diffidenti ed ostili verso chi appartiene a gruppi diversi. Nei casi estremi percepiti quasi come “specie diversa”, trattati come “non umani”, esposti a forme anche estreme di violenza. (Attili, 2000).
La sociobiologia dell’etnocentrismo esplora i legami tra processi evolutivi di tipo biologico e le manifestazioni psicologiche e culturali nelle quali si esprime l’ostilità nei confronti del diverso. L’etnocentrismo, origine del pregiudizio, secondo tale visione, sarebbe, nella specie umana, l’equivalente dei legami di consanguineità che nelle specie animali governano la rete delle relazioni sociali. La nostra dotazione culturale ci ha poi imposto di trasferire a un livello più complesso (quello della distinzione tra gruppo di appartenenza e gruppo esterno) la tendenza a favorire quanti condividono il nostro patrimonio genetico. Da qui tutti i segni che ci consentono di marcare le appartenenze e di distinguere amici da nemici: tratti somatici, lingua, abbigliamento, comportamento, e tutto ciò che evidenzia la differenza tra chi è dentro da chi è fuori dal gruppo. Ma in tale ottica biologico-evoluzionista il comportamento non è subordinato all’istinto ma fondato su semplici propensioni su base innata, le quali possono dar luogo a comportamenti eterogenei tra loro, comunque sempre sensibili al condizionamento sociale e culturale. Sarebbe allora interessante individuare le modalità con cui tali propensioni si realizzano.
Nella costruzione delle immagini sociali sullo straniero, sul diverso, vediamo come entrino in gioco processi cognitivi, aspetti legati all’identità sociale e dinamiche motivazionali, oltre che aspetti linguistici e comunicativi.
Le rappresentazioni sociali si collocano tra lo psichico e il sociale; sono rappresentazioni di sé e degli altri che si possono riferire a categorie sociali o all’immaginario collettivo “… sono sistemi cognitivi con un linguaggio e una logica propri. Non sono semplicemente opinioni o atteggiamenti, ma teorie ingenue, branche di conoscenza per la scoperta e l’organizzazione della realtà” (Palmonari, 1980).
La loro funzione è di stabilire un ordine affinché ci si possa orientare nello spazio sociale e avere un codice di lettura della storia personale e sociale.
Le rappresentazioni si originano dagli scambi interattivi e comunicativi tra persone, attraverso le interazioni si generano infatti concetti che in vario modo collegati contribuiscono a formare un universo condiviso di significati.
Quando interagiamo con una persona per poterla conoscere ci costruiamo via via un giudizio su di essa. La conoscenza che ne facciamo tuttavia è mutabile nel corso del tempo e per integrazione di elementi successivi, per cui non è possibile fare una previsione lineare sul comportamento che avremo in futuro nei suoi confronti sulla base di tale conoscenza.
Le coordinate culturali nelle quali siamo immersi contribuiscono ad orientare la nostra costruzione dell’immagine dell’altro. Sul piano sociale la cultura può infatti filtrare le rappresentazioni operando delle ricostruzioni della realtà, sulla base di aspetti collettivamente immaginati, pensati o attesi; a differenza di un’ideologia che fa capo ad un sistema concettuale logico entro cui un evento acquista significato, poiché si colloca in uno spazio e in un tempo, la rappresentazione è svincolata da coordinate spazio-temporali, riguarda il reale ma non necessariamente vi corrisponde in maniera univoca e diretta; piuttosto che semplice astrazione di un oggetto, fedele riproduzione del reale, le rappresentazioni, le immagini, la conoscenza scaturiscono dalla connessione dell’oggetto con il soggetto che conosce. La realtà non è conosciuta bensì costruita, l’immagine che emerge dall’incontro con l’altro è allora costruita dall’interazione e dalla sua condivisione nel contesto collettivo.
Dunque il significato attribuito a un comportamento, ad un evento, la percezione dello straniero corrisponde ad una ricostruzione condivisa all’interno di un contesto in cui assume valore e rispetto a determinati codici di significazione.
Una funzione principale delle rappresentazioni sociali è quella di ordinare, organizzare, semplificare il reale. Ma consideriamo anche i processi cognitivi che sono alla base della costruzione delle immagini sociali e dell’immagine dello straniero in particolare.
Tajfel (1982), nella sua teoria dell’identità sociale sottolinea come in tutti gli esseri umani è rintracciabile una tendenza a raggruppare le altre persone e se stessi all’interno di categorie sociali, secondo dimensioni come il sesso, l’etnia, l’età, la professione, la religione, etc. Questi meccanismi di categorizzazione e auto-categorizzazione ci spingono ad enfatizzare le somigliante con coloro che appartengono al nostro gruppo (in-group) e ad esaltare le differenze rispetto a coloro che non ne fanno parte (out-group).
E’ poi attraverso il riconoscimento di appartenere ad un determinato insieme di persone che ciascuno definisce la propria identità. La contrapposizione fra in-group e out-group induce tuttavia a sviluppare un atteggiamento pregiudiziale, per cui si tende a valutare negativamente coloro che non appartengono al proprio gruppo mettendo in atto comportamenti che discriminano i membri esterni.
Ma qual è il motivo della tendenza a favorire il gruppo d’appartenenza?
Ci si potrebbe aspettare di vedersi ricambiato il favore e l’appoggio, oppure ipotizzare dei vincoli affettivi e di amicizia, ciò è vero ma la ricerca psicosociale ha dimostrato che per innescare fenomeni di favoritismo è sufficiente la semplice categorizzazione, in assenza di qualsiasi elemento di familiarità o interazione o anche di aspettativa di tornaconto personale. Una spiegazione è individuata nel fatto che l’individuo ricava dall’appartenenza ai gruppi una parte consistente della propria identità, per cui è portato a trasferire sul gruppo gli stessi meccanismi di protezione dell’autostima e favoritismo che normalmente vengono applicati a se stesso; ciò avviene non solo rispetto ai vantaggi materiali (risorse, privilegi) ma anche rispetto all’importanza di veder confermati valori, norme e modelli comportamentali. Il gruppo di appartenenza sostiene l’individuo in quanto garante della bontà delle sue interpretazioni del mondo e dell’efficacia delle sue scelte.
Osservando persone appartenenti a gruppi etnici diversi sembrano molto simili tra loro, da apparire quasi indistinguibili. Quest’impressione si verifica non solo in riferimento a tratti fisici ma anche rispetto alle caratteristiche psicologiche e comportamentali ed è definita “effetto di omogeneità dell’out-group”.
La mente è costantemente sommersa da un enorme varietà di informazioni che non possono esser trattate una ad una, né memorizzare nelle infinite articolazioni. Da qui la necessità di attivare strategie cognitive che selezionano e organizzano le informazioni in arrivo in modo da renderle compatibili con le potenzialità della mente umana.
Attraverso la categorizzazione: la tendenza a raggruppare oggetti, persone, eventi in insiemi che possano essere considerati omogenei, viene ovviamente sopravvalutato ciò che gli elementi hanno in comune e sottovalutato ciò che hanno di diverso (processo di accentuazione cognitiva: per cui si considerano più piccole di quanto siano le differenze all’interno di una categoria e più grandi invece quelle tra le diverse categorie). Nella percezione sociale questo processo può esser considerato come la base cognitiva del pregiudizio, ossia il fatto di percepire gli altri più in termini di categorie sociali che in termini di individui. Tendiamo così a valutare le persone non per quello che realmente sono ma per la loro appartenenza a un gruppo.
Ciò consente di differenziare e rafforzare la coesione col proprio gruppo di appartenenza, di razionalizzare il conflitto contro qualcuno, contrapponendo un Noi a un Loro e di conservare la distanza sociale attraverso una gerarchizzazione dei gruppi e delle etnie.
I pregiudizi sono poi difficili da modificare, anzi attivano processi di auto-riproduzione, sono connessi al senso comune, slegati da aspetti concreti e oggettivi, permangono invarianti nonostante le prove contrarie. Funzionano come delle guide nella nostra continua ricerca di informazioni.
Quando è vaga e ambigua la conoscenza che possiamo avere delle persone tendiamo ad attribuire loro ciò che ci sembra caratteristico del gruppo a cui appartengono.
Entrando in rapporto con una persona appartenente a un diverso gruppo etnico interpretiamo i dati di quell’esperienza in rapporto allo stereotipo del gruppo, tenderemo a sopravvalutare gli elementi che confermano lo stereotipo e a sottovalutare ed ignorare episodi in cui sono stati espressi comportamenti contrari allo stereotipo, o possiamo inconsapevolmente provocare attivamente la conferma delle nostre aspettative (profezia che si autoavvera).
Spesso benché animati da buone intenzioni, ben disposti nei confronti del diverso, a livello esplicito e consapevole, non ci accorgiamo di alcuni segni di discriminazione che agiamo, del senso di distanza, di superiorità che accompagna i nostri rapporti con chi appartiene a una diversa etnia. Pensiamo ad es. a quante volte ci capita di rivolgerci a un immigrato, magari non più giovanissimo, usando il “tu” al posto del “lei” come invece prevedono le nostre regole sociali nell’interazione tra sconosciuti.
Un’altra importante funzione della rappresentazione dello straniero ha l’effetto di distorcere la realtà.
La diversità dell’Altro fa irruzione nella nostra normalità ed è il perturbante che sconvolge gli equilibri e rompe l’omeostasi, può acquistare un significato solo rispetto ad un codice di riferimento noto. L’estraneo suscita in noi una reazione non perché sconosciuto ma perché non corrisponde alle nostre convenzioni, perché diverso; si origina il bisogno di attribuire all’Altro ciò che di straniero c’è in noi.
Lo spazio della relazione anzichè condiviso viene invaso da produzioni di senso e meccanismi di controllo. L’espressione manifesta, in carne ed ossa, colore della pelle, abbigliamento, credo religioso, cultura, mentalità della diversità dell’Altro genera in noi un sentimento inquietante e perturbante di estraneità poiché egli rappresenta il nostro doppio/negativo che avrebbe dovuto rimanere nascosto. Egli incarna l’aggressore e diviene oggetto su cui indirizzare quote di paura e di aggressività.
La rappresentazione del diverso si genera in questo caso attraverso alcuni meccanismi di categorizzazione dove spiccato è l’impatto della componente psicologica.
La separazione categoriale tra Noi e Loro implica una valutazione in termini di persone “superiori” e “inferiori”. La discriminazione accentua la diversità per non accettare le somiglianze, per non dover riconoscere nell’altro le proprie qualità ed in se stessi i difetti dell’altro. Nei confronti del diverso si attua un’operazione di svalutazione delle sue caratteristiche o di una loro inversione. Il confronto avviene su attributi che l’Altro, possiede con valenza inferiore, il risultato che ne deriva è che egli “vale zero”. Con il meccanismo dell’inversione viene amplificata la differenza tra l’Altro e se stessi fino a vedere le sue caratteristiche come opposte alle proprie.
Il risultato di tali meccanismi conduce ad una derealizzazione, nella realtà non vi sono tracce di tale rappresentazione e l’Altro viene visto con connotazioni fortemente negative.
La funzione di tale dinamica psicologica e della categoria che ne deriva è di confermare che il timore e il disprezzo per l’Altro erano fondati.
Inoltre, l’esasperazione estrema del meccanismo di inversione, oltre a marcare la differenza tra l’Altro e se stessi può arrivare a tradurre le sue caratteristiche come inumane e mostruose, deformi, non armoniche rispetto ad una forma che ci è familiare. Tutto questo riguarda l’incapacità di dare significato all’Altro, poiché sfugge ai nostri codici di comprensione. Quando non riusciamo ad identificarci con lo straniero, perché estraneo e alieno al nostro mondo ci ricorda solo ciò che non siamo. La complessità dell’Altro viene così semplificata con l’etichettamento e lo stereotipo, nei casi estremi attraverso una disumanizzazione.
Attraverso tali meccanismi l’immagine dell’immigrato sarà svalutata, spesso viene definito per ciò che gli manca, visto come senza cultura, senza civiltà etc.
Risultano spesso distorte le nostre valutazioni dei fatti legati all’immigrazione, le ricerche sottolineano come tendiamo a sovrastimare il numero di immigrati presenti nella nostra società, ad ingigantire i problemi che possono porre, ad esagerare il loro ruolo nella criminalità.
In una società come la nostra, tendenzialmente multiculturale e multietnica, le presenza dello “straniero”, le figure dell’immigrazione trovano nei media e nei nuovi mezzi di comunicazione un veicolo di forte impatto cognitivo ed emotivo. Considerando i risultati delle ultime ricerche vediamo come dai dispacci dell’Ansa emergano alcune figure d’immigrato; fino a qualche anno fa l’interesse prevalente nei confronti delle minoranze era legato ai codici di codifica degli atti di devianza e di violenza, di illegalità, di strane abitudini, nell’ultimo periodo l’Altro è considerato “sporco, povero, bugiardo”; dalla lettura critica di alcuni documenti emerge come l’informazione sugli immigrati sia concentrata quasi esclusivamente sugli “irregolari” e sui loro comportamenti illegali. L’argomento acquista evidenza solo quando si fa emergenza (pericolo di invasione, attentato alla sicurezza).
Nell’informazione tendono a prevalere immagini squalificanti dello straniero: “egli ha qualcosa di minaccioso, ed è fonte di disagi e disturbi…l’invadente viene a sporcare qualcosa di nostro, colpevole della sua miseria, tenta di toglierci la sicurezza che ci siamo duramente conquistati”; il quadro che si presenta è questo: “si muove sempre in gruppi, non ha ritegno, entra nel nostro spazio senza bussare e siamo anche costretti a spendere denaro per rifocillarlo. Se poi riesce a scappare dai centri di accoglienza e ad entrare nelle nostre città di sicuro ci porta nuovi problemi”.
Vediamo dunque che quando un flusso di popolazione straniera (sbarchi) vuole riversarsi nel nostro paese, un’intera comunità etnico-religiosa che afferma la sua diversità, la sua alterità rispetto al nostro mondo e al nostro sistema di vita i mezzi d’informazione si mobilitano per esorcizzarla, per neutralizzarla sul piano simbolico e ideologico, ma poiché è insostenibile una presa di posizione meramente xenofoba, vengono fatte delle distinzioni tra immigrati buoni e cattivi, tra diversi che credono nei valori dell’occidente e fanatici che non ci credono; in tal modo l’antirazzismo è salvo e si possono legittimare interventi repressivi o stigmatizzazioni ideologiche nei confronti dell’Altro.
“Quando è solo, quando è inoffensivo, quando è morto l’immigrato ci fa commuovere. Poveraccio, ne deve aver passate tante per farsi un viaggio di quel genere e morire in terra straniera”!
Al contrario, nell’ambito delle elaborazioni socio-culturali in materia d’immigrazione l’esaltazione senza riserve della positività dell’incontro tra immigrati e popolazione di accoglienza per i suoi caratteri di arricchimento reciproco (posizione che all’estremo Bèjin definisce “parmixismo utopico”) con l’esasperato individualismo ripropone l’inefficace metafora del “buon selvaggio” ma vi unisce un assoluto disprezzo per l’identità, che viene spogliata di senso. In tale ottica l’uomo ideale è “l’individuo amnesiaco, intercambiabile ed incapace di prolungare in qualche modo la propria esistenza oltre la morte” al quale si contrappongono tutti quegli uomini reali, in carne ed ossa che “non si rassegnano ad essere soltanto degli individui e che ancorando la propria coscienza personale al dato etnoculturale, investendo il loro bisogno di solidarietà, sentono che attraverso i geni e la propria cultura un po’ di loro stessi potrà essere trasmesso alle generazioni future” (Bèjin).
Spesso il processo psicologico dell’emigrante si muove tra due estremi:l’inculturazione e il mantenimento rigido dei propri schemi culturali; entrambi gli estremi determinano effetti negativi.
Ad un estremo il soggetto cerca di inserirsi nella società ospitante rinunciando alla propria individualità etnica per non contrastare con i nuovi standard culturali; si tratta di rinnegare la propria storia, la propria cultura e aderire in modo acritico a nuovi modi di essere e pensare, altrimenti rischia di essere estromesso dalla vita sociale. Tale processo è altamente disadattivo, in cambio dell’approvazione sociale dovrà rinunciare a cospicue quote d’identità, alle proprie origini, alla propria cultura rimanendo alieno a se stesso.
Il soggetto emigrato interiorizza in maniera acritica la struttura del paese ospitante creando una sovrastruttura che copre e annichilisce la sua vera identità. E’ possibile infatti camuffare, mascherare i tratti fondamentali della personalità individuale rendendoli nascosti a sé e agli altri, attraverso i processi della rimozione; il soggetto confina rendendoli nascosti i contenuti del suo essere ritenuti socialmente indesiderabili; attraverso tale processo tuttavia egli non è più in grado di dialogare con le parti che ha rimosso, non avendone più coscienza.
Tali contenuti, separati dalla coscienza, tuttavia rimangono presenti e condizionano la vita quotidiana.
All’altro estremo del processo psicologico del migrante ritroviamo invece la volontà rigida del soggetto di non rinunciare a nessuna delle proprie abitudini e regole culturali, ciò per contrapporsi a una cultura che lo respinge, ciò lo porta ad auto escludersi dalla società ospitante, a rimanere confinato nell’eterna condizione di ospite. In tale visione s’inseriscono i fenomeni d’intolleranza verso il diverso.
Stupisce molto constatare come popoli con lunghe storie di immigrazione non siano esenti da fenomeni d’intolleranza verso lo straniero.
Il ricordo, la storia di un popolo non sembrano essere sufficienti ad evitare le intolleranze. Riferendoci al contesto siciliano, esso ha una lunga storia di dominazioni, immigrazioni la cui memoria storica è viva e ancora molto presente nelle sue tradizioni, eppure essa è come trascurata o rimossa. Un popolo che ha molto sperato nella possibilità di integrazione in terra straniera si rivolge allo straniero con intolleranza, generando la medesima situazione in cui si trovarono i suoi avi. Si può forse ipotizzare un atteggiamento di rivalsa che spinge le persone a riscattare le proprie sofferenze infliggendole agli altri.
I contenuti impressi nella memoria di un passato sofferto vengono scissi dalla coscienza, assicurando la possibilità di vivere come se non esistessero. Essi tuttavia premono per tornare alla coscienza, la quale per impedirne la comparsa erige delle barriere, delle difese. In Sicilia il meccanismo di difesa coinvolto in tale processo psicologico, secondo il parere di alcuni studiosi, è l’identificazione proiettiva (viene scisso dalla coscienza un contenuto doloroso, un aspetto di sé negativo, trattato come estraneo poiché proiettato all’esterno; il soggetto successivamente eviterà tutte le situazioni che possano portare alla luce tale ricordo rimosso, ma esso opererà in senso inverso, facilitando dunque ogni situazione che possa facilitargli l’accesso alla coscienza).
L’identificazione proiettiva funziona dunque da scudo protettivo, scambiando le parti in gioco: l’aggressore diviene aggredito. La Sicilia ha vissuto anni di privazioni e umiliazioni, condizioni di forte disagio in seguito alle emigrazioni, oggi tutto ciò è presente nei ricordi che carichi di angosce vengono rimossi, esorcizzati, ma sono proprio tali ricordi che cercano di tornare alla coscienza e attraverso l’identificazione proiettiva si scagliano e aggrediscono umiliano i nuovi emigrati, come tentativo di esorcizzare ed oscurare l’inconscio traumatico.
In generale è possibile considerare i fenomeni d’intolleranza come la conseguenza di difficoltà di comunicazione che non riguardano unicamente il piano strettamente linguistico ma anche i canali di trasmissione non condivisi e ancor più le matrici culturali che propongono codici simbolici e di significazione che in un contesto alieno non possono essere facilmente interpretati e decodificati.
Dobbiamo tuttavia essere consapevoli del fatto che le culture vivono confrontandosi, scambiando persone, oggetti, immagini, valori, e mescolandosi, cambiano continuamente attraverso i mutamenti delle persone che ne fanno parte. Questo è ciò che Bakhtin (1981) intendeva quando scriveva: “non dobbiamo immaginare il regno della cultura come uno spazio con delle frontiere e un territorio interno. Il regno della cultura è interamente distribuito lungo le frontiere. Se viene separato da esse perde il suo fondamento, diventa vuoto ed arrogante, degenera e muore”. Non c’è nessuna cultura viva che sia separata. Le differenze culturali non sono dunque fenomeni statici ma occasioni di negoziazione e di scambio.
“La perturbante immagine del diverso”, tratto in data 17-03-2010 da Obiettivo Psicologia. Formazione, lavoro e aggiornamento per psicologi
http://www.opsonline.it/index.php?m=show&id=22029
Tali contenuti, separati dalla coscienza, tuttavia rimangono presenti e condizionano la vita quotidiana.
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