Il monito degli economisti.
Collasso Europa Tutto previsto.
fonte: economia e politica
Il monito degli economisti
Financial Times, 23 settembre 2013
ECCO COSA SI DICEVA GIA’ ALLORA:
LA POLITICA RESTRITTIVA AGGRAVA LA CRISI,
ALIMENTA LA SPECULAZIONE E PUO’ CONDURRE ALLA
DEFLAGRAZIONE DELLA ZONA EURO. SERVE UNA
SVOLTA DI POLITICA ECONOMICA PER SCONGIURARE
UNA CADUTA ULTERIORE DEI REDDITI E
DELL’OCCUPAZIONE
Ai membri del Governo e del Parlamento
Ai rappresentanti italiani presso le Istituzioni dell’Unione europea
Ai rappresentanti delle forze politiche e delle parti sociali
E per opportuna conoscenza al Presidente della Repubblica
La gravissima crisi economica globale, e la connessa crisi della zona euro, non si risolveranno attraverso tagli ai salari, alle pensioni, allo Stato sociale, all’istruzione, alla ricerca, alla cultura e ai servizi pubblici essenziali, né attraverso un aumento diretto o indiretto dei carichi fiscali sul lavoro e sulle fasce sociali più deboli.
Piuttosto, si corre il serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europa delle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle imprese, e possa a un certo punto costringere alcuni Paesi membri a uscire dalla Unione monetaria europea.
Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero.
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La crisi mondiale esplosa nel 2007-2008 è tuttora in corso. Non essendo intervenuti sulle sue cause strutturali, da essa non siamo di fatto mai usciti. Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori. Per lungo tempo questo divario è stato compensato da una eccezionale crescita speculativa dei valori finanziari e dell’indebitamento privato che, partendo dagli Stati Uniti, ha agito da stimolo per la domanda globale.
Vi è chi oggi confida in un rilancio della crescita mondiale basato su un nuovo boom della finanza statunitense. Scaricando sui bilanci pubblici un enorme cumulo di debiti privati inesigibili si spera di dare nuovo impulso alla finanza e al connesso meccanismo di accumulazione. Noi riteniamo che su queste basi una credibile ripresa mondiale sia molto difficilmente realizzabile, e in ogni caso essa risulterebbe fragile e di corto respiro. Al tempo stesso consideriamo illusorio auspicare che in assenza di una profonda riforma del sistema monetario internazionale la Cina si disponga a trainare la domanda globale, rinunciando ai suoi attivi commerciali e all’accumulo di riserve valutarie.
Siamo insomma di fronte alla drammatica realtà di un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda, senza una “spugna” in grado di assorbire la produzione.
L’irrisolta crisi globale è particolarmente avvertita nella Unione monetaria europea. La manifesta fragilità della zona euro deriva da profondi squilibri strutturali interni, la cui causa principale risiede nell’impianto di politica economica liberista del Trattato di Maastricht, nella pretesa di affidare ai soli meccanismi di mercato i riequilibri tra le varie aree dell’Unione, e nella politica economica restrittiva e deflazionista dei paesi in sistematico avanzo commerciale. Tra questi assume particolare rilievo la Germania, da tempo orientata al contenimento dei salari in rapporto alla produttività, della domanda e delle importazioni, e alla penetrazione nei mercati esteri al fine di accrescere le quote di mercato delle imprese tedesche in Europa. Attraverso tali politiche i paesi in sistematico avanzo non contribuiscono allo sviluppo dell’area euro ma paradossalmente si muovono al traino dei paesi più deboli. La Germania, in particolare, accumula consistenti avanzi commerciali verso l’estero, mentre la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Francia tendono a indebitarsi. Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dalla Germania più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti.
La piena mobilità dei capitali nell’area euro ha favorito enormemente il formarsi degli squilibri nei rapporti di credito e debito tra paesi. Per lungo tempo, sulla base della ipotesi di efficienza dei mercati, si è ritenuto che la crescita dei rapporti di indebitamento tra i paesi membri dovesse esser considerata il riflesso positivo di una maggiore integrazione finanziaria dell’area euro. Ma oggi è del tutto evidente che la presunta efficienza dei mercati finanziari non trova riscontro nei fatti e che gli squilibri accumulati risultano insostenibili.
Sono queste le ragioni di fondo per cui gli operatori sui mercati finanziari stanno scommettendo sulla deflagrazione della zona euro. Essi prevedono che per il prolungarsi della crisi le entrate fiscali degli Stati declineranno e i ricavi di moltissime imprese e banche si ridurranno ulteriormente. Per questa via, risulterà sempre più difficile garantire il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati. Diversi paesi potrebbero quindi esser progressivamente sospinti al di fuori della zona euro, o potrebbero decidere di sganciarsi da essa per cercare di sottrarsi alla spirale deflazionista. Il rischio di insolvenza generalizzata e di riconversione in valuta nazionale dei debiti rappresenta pertanto la vera scommessa che muove l’azione degli speculatori. L’agitazione dei mercati finanziari verte dunque su una serie di contraddizioni reali. Tuttavia, è altrettanto vero che le aspettative degli speculatori alimentano ulteriormente la sfiducia e tendono quindi ad auto-realizzarsi. Infatti, le operazioni ribassiste sui mercati spingono verso l’alto il differenziale tra i tassi dcinteresse e i tassi di crescita dei redditi, e possono rendere improvvisamente insolventi dei debitori che precedentemente risultavano in grado di rimborsare i prestiti. Gli operatori finanziari, che spesso agiscono in condizioni non concorrenziali e tutt’altro che simmetriche sul piano della informazione e del potere di mercato, riescono quindi non solo a prevedere il futuro ma contribuiscono a determinarlo, secondo uno schema che nulla ha a che vedere con i cosiddetti ‘fondamentali’ della teoria economica ortodossa e i presunti criteri di efficienza descritti dalle sue versioni elementari.
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In un simile scenario riteniamo sia vano sperare di contrastare la speculazione tramite meri accordi di prestito in cambio dell’approvazione di politiche restrittive da parte dei paesi indebitati. I prestiti infatti si limitano a rinviare i problemi senza risolverli. E le politiche di “austerità” abbattono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindi deteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti da parte dei debitori, pubblici e privati. La stessa, pur significativa svolta di politica monetaria della BCE, che si dichiara pronta ad acquistare titoli pubblici sul mercato secondario, appare ridimensionata dall’annuncio di voler “sterilizzare” tali operazioni attraverso manovre di segno contrario sulle valute o all’interno del sistema bancario.
Gli errori commessi sono indubbiamente ascrivibili alle ricette liberiste e recessive suggerite da economisti legati a schemi di analisi in voga in anni passati, ma che non sembrano affatto in grado di cogliere gli aspetti salienti del funzionamento del capitalismo contemporaneo.
E’ bene tuttavia chiarire che l’ostinazione con la quale si perseguono le politiche depressive non è semplicemente il frutto di fraintendimenti generati da modelli economici la cui coerenza logica e rilevanza empirica è stata messa ormai fortemente in discussione nell’ambito della stessa comunità accademica. La preferenza per la cosiddetta “austerità” rappresenta anche e soprattutto l’espressione di interessi sociali consolidati. Vi è infatti chi vede nell’attuale crisi una occasione per accelerare i processi di smantellamento dello stato sociale, di frammentazione del lavoro e di ristrutturazione e centralizzazione dei capitali in Europa. L’idea di fondo è che i capitali che usciranno vincenti dalla crisi potranno rilanciare l’accumulazione sfruttando tra l’altro una minor concorrenza sui mercati e un ulteriore indebolimento del lavoro.
Occorre comprendere che se si insiste nell’assecondare questi interessi non soltanto si agisce contro i lavoratori, ma si creano anche i presupposti per una incontrollata centralizzazione dei capitali, per una desertificazione produttiva del Mezzogiorno e di intere macroregioni europee, per processi migratori sempre più difficili da gestire, e in ultima istanza per una gigantesca deflazione da debiti, paragonabile a quella degli anni Trenta.
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Il Governo italiano ha finora attuato una politica tesa ad agevolare questo pericoloso avvitamento deflazionistico. E le annunciate, ulteriori strette di bilancio, associate alla insistente tendenza alla riduzione delle tutele del lavoro, non potranno che provocare altre cadute del reddito, dopo quella pesantissima già fatta registrare dall’Italia nel 2009. Si tenga ben presente che sono altamente discutibili i presupposti scientifici in base ai quali si ritiene che attraverso simili politiche si migliora la situazione economica e di bilancio e quindi ci si salvaguarda da un attacco speculativo. Piuttosto, per questa via si rischia di alimentare la crisi, le insolvenze e quindi la speculazione.
Nemmeno si può dire che dalle opposizioni sia finora emerso un chiaro programma di politica economica alternativa. Una maggior consapevolezza della gravità della crisi e degli errori del passato va diffondendosi, ma si sono levate voci da alcuni settori dell’opposizione che suggeriscono prese di posizione contraddittorie e persino deteriori, come è il caso delle proposte tese a introdurre ulteriori contratti di lavoro precari o ad attuare massicci programmi di privatizzazione dei servizi pubblici. Gli stessi, frequenti richiami alle cosiddette “riforme strutturali” risultano controproducenti laddove, anzichè caratterizzarsi per misure tese effettivamente a contrastare gli sprechi e i privilegi di pochi, si traducono in ulteriori proposte di ridimensionamento dei diritti sociali e del lavoro.
Quale monito per il futuro, è opportuno ricordare che nel 1992 l’Italia fu sottoposta a un attacco speculativo simile a quelli attualmente in corso in Europa. All’epoca, i lavoratori italiani accettarono un gravoso programma di “austerità”, fondato soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e della spesa previdenziale. All’epoca, come oggi, si disse che i sacrifici erano necessari per difendere la lira e l’economia nazionale dalla speculazione. Tuttavia, poco tempo dopo l’accettazione di quel programma, i titoli denominati in valuta nazionale subirono nuovi attacchi. Alla fine l’Italia uscì comunque dal Sistema Monetario Europeo e la lira subì una pesante svalutazione. I lavoratori e gran parte della collettività pagarono così due volte: a causa della politica di “austerità” e a causa dell’aumento del costo delle merci importate.
Va anche ricordato che, con la prevalente giustificazione di abbattere il debito pubblico in rapporto al Pil, negli anni passati è stato attuato nel nostro paese un massiccio programma di privatizzazioni. Ebbene, i peraltro modesti effetti sul debito pubblico di quel programma sono in larghissima misura svaniti a seguito della crisi, e le implicazioni in termini di posizionamento del Paese nella divisione internazionale del lavoro, di sviluppo economico e di benessere sociale sono oggi considerati dalla piu autorevole letteratura scientifica altamente discutibili.
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Noi riteniamo dunque che le linee di indirizzo finora poste in essere debbano essere abbandonate, prima che sia troppo tardi.
Occorre prendere in considerazione l’eventualità che per lungo tempo non sussisterà una locomotiva in grado di assicurare una ripresa forte e stabile del commercio e dello sviluppo mondiale. Per evitare un aggravamento della crisi e per scongiurare la fine del progetto di unificazione europea è allora necessaria una nuova visione e una svolta negli indirizzi generali di politica economica. Occorre cioè che l’Europa intraprenda un autonomo sentiero di sviluppo delle forze produttive, di crescita del benessere, di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, di equità sociale.
Affinchè una svolta di tale portata possa concretamente svilupparsi, è necessario in primo luogo dare respiro al processo democratico, è necessario cioè disporre di tempo. Ecco perchè in via preliminare proponiamo di introdurre immediatamente un argine alla speculazione. A questo scopo sono in corso iniziative sia nazionali che coordinate a livello europeo, ma i provvedimenti che si stanno ponendo in essere appaiono ancora deboli e insufficienti. Fermare la speculazione è senz’altro possibile, ma occorre sgombrare il campo dalle incertezze e dalle ambiguità politiche. Bisogna quindi che la BCE si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” i suoi interventi. Occorre anche istituire adeguate imposte finalizzate a disincentivare le transazioni finanziarie a breve termine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, sarà molto meglio intervenire subito in questa direzione a livello nazionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ritardo o non agire affatto.
L’esperienza storica insegna che per contrastare efficacemente la deflazione bisogna imporre un pavimento al tracollo del monte salari, tramite un rafforzamento dei contratti nazionali, minimi salariali, vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavoro e dei processi di sindacalizzazione. Soprattutto nella fase attuale, pensare di affidare il processo di distruzione e di creazione dei posti di lavoro alle sole forze del mercato è analiticamente privo di senso, oltre che politicamente irresponsabile.
In coordinamento con la politica monetaria, occorre sollecitare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, ad attuare opportune manovre di espansione della domanda al fine di avviare un processo di riequilibrio virtuoso e non deflazionistico dei conti con l’estero dei Paesi membri dell’Unione monetaria europea. I principali Paesi in avanzo commerciale hanno una enorme responsabilità, al riguardo. Il salvataggio o la distruzione della Unione dipenderà in larga misura dalle loro decisioni.
Bisogna istituire un sistema di fiscalità progressiva coordinato a livello europeo, che contribuisca a invertire la tendenza alla sperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenare la crisi. Occorre uno spostamento dei carichi fiscali dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, dai contribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori, dalle aree povere alle aree ricche dell’Unione.
Bisogna ampliare significativamente il bilancio federale dell’Unione e rendere possibile la emissione di titoli pubblici europei. Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica monetaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo finalizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa. Il piano deve seguire una logica diversa da quella, spesso inefficiente e assistenziale, che ha governato i fondi europei di sviluppo. Esso deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pubblica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intellettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del territorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone. Sono beni, questi, che inesorabilmente generano fallimenti del mercato, sfuggono alla logica ristretta della impresa capitalistica privata, ma al contempo risultano indispensabili per lo sviluppo delle forze produttive, per l’equità sociale, per il progresso civile.
Si deve disciplinare e restringere l’accesso del piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finanziario. Si deve ripristinare il principio di separazione tra banche di credito ordinario, che prestano a breve, e società finanziarie che operano sul medio-lungo termine.
Contro eventuali strategie di dumping e di “esportazione della recessione” da parte di paesi extra-Ume, bisogna contemplare un sistema di apertura condizionata dei mercati, dei capitali e delle merci. L’apertura può essere piena solo se si attuano politiche convergenti di miglioramento degli standard del lavoro e dei salari, e politiche di sviluppo coordinate.
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Siamo ben consapevoli della distanza che sussiste tra le nostre indicazioni e l’attuale, tremenda involuzione del quadro di politica economica europea.
Siamo tuttavia del parere che gli odierni indirizzi di politica economica potrebbero rivelarsi presto insostenibili.
Se non vi saranno le condizioni politiche per l’attuazione di un piano di sviluppo fondato sugli obiettivi delineati, il rischio che si scateni una deflazione da debiti e una conseguente deflagrazione della zona euro sarà altissimo. Il motivo è che diversi Paesi potrebbero cadere in una spirale perversa, fatta di miopi politiche nazionali di ”austerità” e di conseguenti pressioni speculative. A un certo punto tali Paesi potrebbero esser forzatamente sospinti al di fuori della Unione monetaria o potrebbero scegliere deliberatamente di sganciarsi da essa per cercare di realizzare autonome politiche economiche di difesa dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione. Se così davvero andasse, è bene chiarire che non necessariamente su di essi ricadrebbero le colpe principali del tracollo della unità europea.
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Simili eventualità ci fanno ritenere che non vi siano più le condizioni per rivitalizzare lo spirito europeo richiamandosi ai soli valori ideali comuni. La verità è che è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come soggetto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale in Europa. Ora più che mai, dunque, l’europeismo per sopravvivere e rilanciarsi dovrebbe caricarsi di senso, di concrete opportunità di sviluppo coordinato, economico, sociale e civile.
Per questo, occorre immediatamente aprire un ampio e franco dibattito sulle motivazioni e sulle responsabilità dei gravissimi errori di politica economica che si stanno compiendo, sui conseguenti rischi di un aggravamento della crisi e di una deflagrazione della zona euro e sulla urgenza di una svolta di politica economica europea.
Qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione.
Le tesi del “monito” sono state riprese più volte all’estero e in Italia (si veda, tra l’altro, Eurocrisi: il conto alla rovescia non si è fermato) e anche innescando un dibattito teso a valutare gli effetti di una uscita dall’euro[1].
Ma nonostante questi allarmi, la politica europea, complice la cecità degli economisti più liberisti, ha brillato per ignavia, non pensando mai neppure di ipotizzare una revisione dei Trattati e un cambiamento in senso espansivo delle politiche fiscali.
Ci siamo già occupati di chiarire le ragioni economiche fondamentali della Brexit. In questi anni, il principale problema del Regno Unito è stato la crescita impetuosa del disavanzo commerciale, che ha reso il Paese sempre più dipendente dai capitali stranieri. Lo squilibrio dei conti con l’estero britannico è dipeso in buona misura del surplus della bilancia commerciale tedesca, che lo scorso anno ha superato addirittura l’8% del pil, ancora una volta sforando i limiti posti dalla stessa Commissione Europea. Un avanzo commerciale tedesco reso possibile, si badi bene, dalla presenza dell’euro. Infatti, quell’avanzo è stato compensato dai disavanzi dei Paesi periferici dell’eurozona e ciò ha tenuto relativamente stabile l’euro e pesantemente danneggiato gli altri partner commerciali, Gran Bretagna in testa. La politica deflazionista e “neo-mercantilista” tedesca, dunque, ha agito sotto l’ombrello del quadro delle regole europee e della moneta unica, accentuando gli squilibri nell’eurozona e in tutta l’Unione Europea.
Ora la Brexit darà una spinta a tutte le forze politiche anti-euro. E ciò mentre il quadro macroeconomico dell’area euro appare più nero che mai. Infatti, al contrario di quanto sostenuto dalla Commissione Europea, il combinato di moneta unica e politiche di austerità ha continuato a intensificare gli squilibri e le divergenze tra le aree centrali e quelle periferiche.
Per verificare quanto appena affermato, misuriamo la disomogeneità nelle performance macroeconomiche all’interno della zona euro mediante il coefficiente di variazione del tasso di crescita del Pil pro capite. Si osserva che i Paesi dell’euro sono sempre più distanti fra loro. Dal 1990 a oggi, infatti, il coefficiente passa da 0.30 a 0.42 con una marcata accelerazione dopo lo scoppio della crisi e l’intensificarsi delle politiche di austerità.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea
Ancora, possiamo effettuare delle comparazioni sull’andamento del Pil, ponendo pari a cento il valore registrato da alcuni Paesi nel 2007, anno precedente lo scoppio della crisi. Si vede bene in quale macroscopica misura le aree periferiche si siano allontanate dai valori medi dell’eurozona e naturalmente in particolare dalla Germania (ma anche dalla Francia).
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea
Queste analisi, confermano la tesi secondo cui i processi di centralizzazione dei capitali e di crescita della divergenza territoriale, favoriti dalla moneta unica, risultano aggravati dalle politiche di austerità e finiscono per pesare maggiormente proprio sulle aree periferiche d’Europa.
Per controllare anche quest’ultima affermazione è sufficiente esaminare la dinamica degli investimenti pubblici, sempre ponendo il dato registrato da ciascun paese nel 2007 pari a cento.
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea
Il primo aspetto da rilevare, e che conferma il segno generale delle politiche economiche nell’Unione Europea, è che dopo lo scoppio della crisi la spesa pubblica per investimenti nell’eurozona è diminuita in media del 15%. Il secondo aspetto è dato dalle importantissime differenze esistenti tra centri e periferie: in Germania, ad esempio, si registra un incremento degli investimenti pubblici del 16% rispetto al 2007, mentre in Italia si ha un calo del 29%[2].
Alla luce di queste evidenze, la nostra conclusione non può che essere ancora quella del “monito degli economisti”: il destino dell’euro è drammaticamente segnato. Solo una positiva e repentina svolta verso politiche fiscali coordinate ed ampiamente espansive, redistributive sul piano territoriale e pienamente assecondate dalle autorità monetarie, potrà arrestare il conto alla rovescia dell’euro.
[1] Sul piano scientifico si vedano i seguenti contributi: Realfonzo R. e Viscione A., “The Real Effects of a Euro Exit: Lessons from the Past”, International Journal of Political Economy, 2015, vol. 44, n. 3, pp. 161-173; Realfonzo R. e Viscione A., “The Effecs of a Euro Exit on Growth, Employment and Wages”, Levy Economics Institute, working paper n. 840, giugno 2015, pp. 1-14.
[2] Persino il Fondo Monetario Internazionale e l’Ocse cominciano a domandare maggiori investimenti pubblici. Mi riferisco, ad esempio, alle raccomandazioni del FMI alla Germania in un recente G20, oltre che agli studi contenuti nel World Economic Outlook, Chapter 3: Is it time for an infrastructure push? The macroeconomic effects of public investment, 2014, pp. 75-114 ed al recente Outlook dell’Ocse, Interim Economic Outlook – Stronger growth remains elusive: Urgent policy response is needed, 2016, p. 7. Si tratta di aperture ancora prudenti, ma da quando è scoppiata la crisi nel 2008 è la prima volta che Fmi ed Ocse riconoscono le proprietà espansive della spesa pubblica.