Elettroni, protoni, fotoni. Materia e Energia.
Dobbiamo sforzarci di abbandonare il nostro intuito e le nostre adpettative, quelle nutrite nei confronti degli ordinari oggetti macroscopici.
Ora, bisogna sapere che quando un elettrone scambia fotoni scambia anche energia. Più precisamente, un elettrone acquista energia (elettromagnetica) quando assorbe fotoni e, viceversa, ne emette quando perde energia. Infatti, l’energia medesima in ingresso o in uscita dall’elettrone è costituita dai fotoni medesimi, al limite da un singolo fotone. La quantità di energia veicolata da un singolo fotone è proporzionale alla sua frequenza e a una costante universale, quella di Planck.
Tutte le particelle a scala subnanometrica (sotto il miliardesimo di metro) hanno una frequenza; ce l’hanno i fotoni, ma anche gli elettroni o altre particelle che popolano questi spazi strsordinariamente ridotti. Questo è un fatto che va tenuto fermo.
Attenzione, però: questo non significa affatto che queste particelle vibrino come molle od oscillino come le onde di un lago. Cosa rappresenta allora quella frequenza? Beh, è qui che la faccenda subito si fa strana, lontana dalla nostra esperienza. In effetti, in questo mondo minutissimo le cose vanno molto diversamente da come ci appaiono alla nostra abituale scala macroscopica.
C’è una questione che va subito messa in chiaro: quelle onde che si sviluppano nello spazio e nel tempo non hanno nulla di realmente fisico. Questo è un errore interpretativo che alcuni commettono; e, diciamolo, è piuttosto grave. Va evitato come la peste. Il fatto cruciale è questo: le onde sono delle rappresentazioni matematiche di quelle particelle. Sappiamo bene che in matematica le onde si riflettono in formulazioni caratteristiche. Le funzioni che descrivono le onde associate alle particelle non fanno eccezione (l’unica complicazione è che contengono “numeri complessi”, ma si tratta solo di un tecnicismo di cui non ci occuperemo).
Di che rappresentazione si tratta? Ebbene, non è immediato capirlo – anzi si fa proprio un po’ di fatica in principio – ma l’onda associata a una particella offre un’indicazione di dove la particella stessa possa essere rilevata. La funzione d’onda di una particella, con le sue ampiezze e lunghezze, è dunque solo una descrizione indiretta di una particella, quale un fotone o un elettrone. Più precisamente, il quadrato dell’ampiezza di quell’onda nei vari punti dello spazio indica la (densità di) probabilità di trovare la particella medesima in quei punti.
Insomma, dove le ampiezze di un elettrone sono più pronunciate sarà più frequente individuare quella particella con qualche strumento ad hoc. Ribaltando il discorso, possiamo condurre moltissime rilevazioni in successione nelle stesse condizioni, realizzando che il modo in cui una particella come un elettrone si presenta nello spazio, cioè reagisce con l’apparato, è distribuito proprio come le ampiezze di un’onda (variabile o costante, in funzione delle condizioni).
Ma l’onda rappresentativa di una particella non ci dice solo dove può essere una particella con certe probabilità. La funzione d’onda c’informa anche sulle caratteristiche dinamiche di una particella, come l’energia o la quantità di moto.
Questi fatti appaiono davvero bizzarri, quasi astrusi, ma questi sono i paletti che ha piantato Madre Natura al cospetto della nostra osservazione che, per essere tale, deve implicare un’interazione di qualche tipo con le particelle. Osservare vuol dire a questa scala microscopica provocare un’interazione con un rilevatore (che è macroscopuco).
Dobbiamo prendere atto dei limiti in oggetto e comprendere una circostanza fondamentale: in realtà, un elettrone non è mai per noi osservatori un corpuscolo ben localizzabile e dotato di precisi ingombri. E lo stesso vale per un fotone o altre particelle. Noi non possiamo ingrandire un elettrone e vederlo nelle sue fattezze, così come possiamo vedere un batterio o perfino un piccolo virus. I nostri strumenti possono solo rivelare se in una data regione microscopica avviene o non avviene un’interazione con una particella. Tutto qui.
Le particelle non sono né onde, né corpuscoli. Tutto quello che abbiamo è una funzione matematica – conforme alle rilevazioni sperimentali – che ci dice (quando possibile) che probabilità abbiamo in certe condizioni di rilevare una particella in un certo punto dello spazio e in un dato momento di tempo. In poche parole, non disponiamo mai della descrizione esaustiva di un oggetto classico, ma solo della descrizione delle sue probabilità di interazione. Questo è davvero un aspetto fondamentale; direi la base di quella che è la meccanica dei quanti.
Questa premessa è importante per comprendere bene il carattere intimo di una “particella”. Infatti, molti pensano a delle piccole biglie, ma questo non è corretto. E’ ben vero, queste particelle possono comportarsi anche come se fossero corpuscoli, perché le loro rilevazioni possono fare pensare che tali siano in determinati fenomeni, come tipicamente nelle collisioni (per esempio, diffusione Compton).
Nella storia della fisica dei quanti è stato introdotto il concetto di “dualismo onda-corpuscolo”. Beh, questo può essere facilmente fuorviante, purtroppo. Lascia infatti intendere che un elettrone possa trasformarsi da corpuscolo a onda e viceversa. Niente di più sbagliato. Un elettrone è quello che è, non cambia la sua natura. E quest’ultima non è né corpuscolare, né ondulatoria. Sono solo i fenomeni in cui si rilevano gli elettroni o altre particelle che possono mettere in luce tratti o dulatori o corpuscolari, in funzione di come si distribuiscono le rilevazioni medesime nel particolare contesto sperimentale.
In ogni casi, comunque si rigiri la frittata, si arriva sempre alla conclusione che la natura intima di ogni fenomeno a scala subnanometrica è probabilistica, non deterministica, come invece ci abitua la meccanica classica con i lanci balistici, il gioco delle bocce o anche le orbite satellitari.
In sostanza, una particella è sempre qualcosa di distribuito. Essa non esiste nemmeno come tale; è solo una funzione di probabilità di rilevazione nello spazio (e nel tempo). Non esiste nulla di preciso che sia noto che si sposti, come capiterebbe appunto a una biglia o a un proiettile. Un elettrone non ha una precisa estensione, con bordi e ingombri, interno ed esterno; non al nostro sguardo. Possiamo assumerlo come un punto, ma un punto non ha dimensioni. Il fatto è che il punto è qualcosa che ci serve per pensare a una coordinata; e questo è utile. Ma quella coordinata non è mai individuabile con precisione. Ogni volta può essere differente. C’è solo una statistica di possibilità di individuazione, non certo ingombri, forme, strutture o posizioni precise.
A questo punto, ci sarebbe da vedere come l’onda rappresentativa (probabilistica) di una particella si possa sviluppare nello spazio e modificare nel tempo. Se ne vedrebbero delle belle, aspetti davvero appassionanti; ma non è qui il caso di approfondire, perché l’approccio discorsivo che stiamo adottando non basterebbe più.
Tuttavia, giunti in qualche modo a queste considerazioni, si può forse intuire che parlare di elettroni che emettono fotoni diventa fin dal principio un po’ ostico; lo diventa perché siamo portati a ragionare in termini classici. In verità, abbiamo una distribuzioine probabilistica di posizioni da cui sorge un’altra distribuzione probabilistica di coordinate. Meglio saperlo, ovvero meglio rendersi conto che non stiamo parlando di una sferetta (elettrone) che sparacchia dal suo interno o dalla sua superficie un’altra sferetta (fotone).
Come “nasca” un fotone da un elettrone o come in esso “muoia”. Al di là della faccenda ondulatoria, la curiosità è giustificatissima. Viene infatti da interrogarsi su come prenda piede questa bizzarra trasformazione che conduce all’annichilazione di una particella come il fotone o, viceversa, alla sua generazione “ex nihilo”. Ma ricordiamo quanto possa essere fuorviante il punto di vista classico che abbiamo nella nostra dimensione grossolana.
Intanto, andrebbe anche chiarito che – seppure stiamo parlando di due particelle monolitiche e indivisibili – esse non hanno la medesima natura. Detto in modo semplice, l’elettrone è una porzione elementare di materia (di un certo tipo), mentre il fotone è una porzione di energia (di un certo tipo) che viaggia nello spazio e che pure non si può frammentare.
Tecnicamente, gli elettroni sono fermioni, mentre i fotoni sono bosoni. In linea di massima, i fermioni ricevono energia o la perdono, mentre i bosoni la veicolano nello spazio (l’ho detta in modo un po’ semplice). Un elettrone ha una massa, mentre un fotone ne è privo (esistono comunque bosoni dotati di massa, ma ora non divaghiamo) e non può mai stare fermo.
Abbiamo detto che le particelle sono rappresentate da onde. Bene, questo può farci comprendere ora che quando per esempio un fotone scompare, in quanto assorbito da un elettrone che si eccita (capita tipicamente in un atomo), la sua onda non può più essere distribuita nello spazio; non può perché il fotone scompare proprio dove c’è l’elettrone. La sua onda rappresentativa si concentra improvvisamente nell’elettrone. Si parla di collasso della funzione d’onda.
Attenzione, ricordiamo ancora che stiamo parlando di un’onda rappresentativa. Questo significa che non c’è proprio nulla di fisico che realmente collassi. Semplicemente (si fa per dire), cambiano improvvisamente le modalità di distribuzione probabilistica: si concentrano nell’elettrone e poi scompaiono, dato che il fotone svanisce, trasferendo la sua energia all’elettrone (in ragione della sua frequenza).
Ricapitolando, noi non abbiamo altro che rappresentazioni ondulatorie di probabilità di rinvenire una particella o l’altra. Rappresentazioni, non descrizioni di particelle intese in senso classico. Il concetto di particella, considerata come un corpo con forma e ingombri, a scala subnanometrica non ha senso; e se una forma e un ingombro rigidi esistono simile a scala subnanometrica (ipotesi arbitraria) sino comunque fuori da ogni possibile osservazione.
Come possiamo dunque stabilire come nasca una particella dall’altra o come una svanisca nell’altra? Tutto quanto possiamo dire è che la funzione d’onda dell’una collassa quando interagisce con l’altra.
L’interazione deve ovviamente poter essere rilevata per attestare che è avvenuta. Orbene, siccome le modalità di rilevazione sono descritte da onde, quando un fotone viene “catturato” da un elettrone l’onda rappresentativa di quest’ultimo cambierà; e lo farà in funzione dell’onda del fotone (conta soprattutto la frequenza), quella che collassa. Un discorso del tutto analogo, ma inverso, vale quando un elettrone emette un fotone. Qui, invece del collasso di un’onda rappresentativa, avremo che l’onda associata all’elettrone si modifica, mentre prende corpo una nuova onda rappresentativa, quella di un fotone che prima non esisteva.
In definitiva, mi spiace per chi ha posto la domanda, ma la risposta è inesorabilmente questa: non abbiamo alcuna possibilità di stabilire “come” un fotone scaturisca da un elettrone o come un elettrone assorba un fotone. Tutto quello che possiamo fare – ed è già tanto a questa scala minimale – è stabilire in certi fenomeni come si configurino le onde delle particelle subito prima e subito dopo l’interazione. Tuttavia, l’interazione stessa, il suo intimo processo di trasformazione, ci è semplicemente precluso, ammesso che abbia un senso pensarlo come tale.
Se abbandoniamo le aspettative classiche valide del nostro macrocosmo, dobbiamo riconoscere che essa ha anche una sua logica intrinsica, a prescindere dal modo in cui ho esposto (semplificando) la faccenda. Infatti, se fosse possibile seguire ogni atto della trasformazione noi saremmo anche in grado di riconoscere ingombri e forme delle particelle interagenti. Come però abbiamo stabilito, noi non abbiamo nulla di più di una rappresentazione matematico-probabilistica del loro modo di essere rilevate nello spazio. Quindi non possiamo fare altro che rilevare le loro onde rappresentative quando queste hanno un senso, cioè quando le particelle ci sono: prima e dopo un’interazione. Possiamo avvicinarci quanto vogliamo alla trasformazione, ma non la vedremo mai; potremo solo rilevare una particella o due, a seconda del momento.
La cosa bizzarra è che il nostro mondo a scala abituale, fatto di oggetti con forme e ingombri, deriva proprio da quest’altro mondo subnanometrico in cui le particelle non esistono come enti dotati di estensione netta e forme. Tutta la fisica deterministica della dimensione grossolana è in fondo solo un’approssimazione, anche molto buona, che deriva da un nugulo di fenomeni che sono ciascuno intrinsecamente non-deterministici, ovvero probabilistici.
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